Ecco una notizia di qualche giorno fa: “Microsoft e IBM scendono in campo nella lotta all’Mp3, il formato di compressione audio diffusissimo nella Rete e combattuto dalle lobbies discografiche, che lo additano come veicolo di pirateria, temendo di perdere il controllo della distribuzione musicale. IBM ha annunciato un accordo con RealNetworks per lo sviluppo di un nuovo formato maggiormente “controllabile” per la diffusione di musica via Internet; stesso scopo ha il sistema MS Audio 4.0 di Microsoft, lanciato a Los Angeles alla presenza di numerosi personaggi del mondo musicale e dello spettacolo: secondo l’azienda di Redmond, MS Audio 4.0 consentirà di scaricare musica da Internet in un formato che non ne permetterà la duplicazione.”
Con l’avvento dell’era digitale, la musica per la prima volta si trasforma in dati quantificabili in maniera esatta (88.200 “campioni” per ogni secondo di musica stereo). Da questa rivoluzione nascono tutte le nuove possibilità (e relative problematiche) di trattamento, produzione e distribuzione della musica: il campionamento, l’editing digitale, la pirateria di alta qualità, l’mp3, etc. L’industria ha delle evidenti difficoltà di fronte a questo nuovo fenomeno, ed è comprensibile. Se da un lato la digitalizzazione della musica ha salvato la discografia da una crisi violentissima (molti dei compact venduti dall’introduzione ad oggi sono ristampe di vecchi dischi), dall’altro consente pratiche incontrollabili, come ad esempio la clonazione all’infinito dei master (impossibile con sistemi analogici). Esiste un ramo della creatività che fin dalla sua nascita si è dovuto porre il problema negli stessi termini, aggravati dal fatto che questa disciplina * nata in ambiente digitale e che quindi ha conosciuto in maniera endemica questa contraddizione. Sto parlando della creazione, distribuzione e protezione del software. Esattamente come la musica digitale, anche il software * frutto della creatività o, come dice il burocratese, è “opera dell’ingegno”; a volte è l’opera di decine di ingegni utilizzati fino allo spasimo per mesi. Anche nel software esiste una netta separazione tra braccio creativo e ufficio marketing; spesso i programmatori sono delle stars, i cui software (un esempio per tutti sono i giochi) sono ricercatissimi e che, come accade nella musica, una volta affermati si mettono in proprio. Anche nel software il mercato si divide tra grandi colossi e piccoli produttori indipendenti, che adottano strategie produttive e distributive diverse, pur rivolgendosi allo stesso pubblico. Non è casuale che i piccoli produttori indipendenti (di software come di musica) utilizzino la rete in maniera assai più innovativa rispetto alle “majors”. Anche il software, come la musica, divide la sua clientela in segmenti che solo in parte comunicano tra di loro. E’ difficile che l’acquirente di Photoshop 5.2 sia il teen-ager che cerca in rete i cheats di Crash Bandicoot per la playstation, anche se magari hanno lo stesso computer, lo stesso sistema operativo e magari pure lo stesso browser. L’universo della creazione di software è nato ponendosi il problema della protezione dalle copie, e più in generale del rapporto con gli utenti (data anche la necessità di aggiornamenti); e infatti fin dall’inizio sono esistiti, a fianco del “corporate software”, lo shareware ed il freeware. Stiamo assistendo ora ad un ulteriore mutamento “etico” con l’introduzione del sistema operativo Linux, il cui codice sorgente (e quindi la possibilità di modificarlo) viene fornito liberamente a tutti. Nel campo della protezione del software le abbiamo viste quasi tutte: chiavi fisiche di protezione (i famigerati dongles), criptazione a chiave numerica, numero di serie, disco master da portarsi sempre dietro, numero di installazioni predeterminato; le hanno provate tutte, ma senza alcun successo. Il mercato ha stabilito le regole del gioco, semplici e a mio parere piuttosto efficaci: il software gira (e sfido chiunque a sostenere di non aver mai avuto software copiato nel computer), uno lo trova, lo prova, lo verifica, e se è proprio quello che sta cercando (c’è un sacco di fuffa inutile tra il software come nella musica) alla fine se lo compra (soprattutto se ci lavora). Perché poi gli mandano gli aggiornamenti (che gli sciocchi produttori continuano a far pagare), perché vuole il libretto delle istruzioni (spesso ancora fatto coi piedi), perché vuole essere sicuro di non avere problemi (anche se il software originale si inchioda esattamente come quello copiato). Se si guarda la questione sotto questa luce mi pare abbastanza facile prevedere quello che può succedere nei prossimi mesi ed anni: mentre le etichette indipendenti si lanceranno entusiasticamente in questo nuovo medium (creando musica freeware e shareware, dove la circolazione è libera, oppure viene chiesta una cifra se poi uno tiene i brani), le majors cercheranno con ogni mezzo di far pagare per ogni singola copia scaricata, e di impedire la copiatura dei files. Ma dove c’è una protezione, c’è anche un hacker pronto a disabilitarla: non lo dico io ma la storia del software (che ha ormai una quindicina di anni). E allora questi files circoleranno sprotetti (e stavolta veramente incontrollabili), fino al giorno in cui le varie Microsoft del disco si renderanno conto che la protezione non serve, ma che quello che ci vuole è una robusta dose di fiducia reciproca (e non l’equiparazione dei consumatori a dei criminali, come invece vuole fare adesso, forse inconsapevolmente), un reale valore aggiunto da dare al prodotto originale (per esempio degli aggiornamenti, o l’accesso a particolari siti legati agli album, una sorta di copertine interattive) ed una mentalità realmente innovativa: tanto gli schemi salteranno tutti comunque (esattamente come è successo, solo pochi anni fa, con il software).