Fin dall’inizio di Internet c’è stato un dilemma concettuale e linguistico, risolto utilizzando parole e concetti presi da altre attività umane: “navigare”, avere un “sito”, “motore” di ricerca, e via dicendo. Anche il termine “rete” è preso in prestito, e descrive solo grossolanamente la forma e il funzionamento di quella digitale. Tra le metafore più suggestive e efficaci per immaginare l’universo tecnologico ci sono (grazie alla Fantascienza) quelle urbane, i siti commerciali sono negozi, Wikipedia è una biblioteca pubblica, Pornhub è il cinema porno. Io ho un mio sito che considero un’estensione di casa mia, ma ognuno di noi ha dei “luoghi” propri a cui contribuisce e che alimenta talvolta con ardore. La stragrande maggioranza degli utenti non fa il mio mestiere e non ha bisogno di una piattaforma personale, ma invece è presente sulle reti sociali dove pubblica contenuti e interagisce coi propri simili.
Non è una novità. Da sempre la rete è stata interpretata dagli utenti anche come luogo di relazione tra umani. Ma, restando nella metafora spaziale, se Amazon è un negozio e Archive.org una biblioteca, dove stanno i marciapiede, le piazze e i parchi pubblici? Esistono su Internet dei luoghi della collettività, che chiunque può frequentare liberamente, comunicare e esprimersi? Una volta c’era IRC o Usenet e i suoi Newsgroup, zone relativamente franche e molto, molto libere – forse troppo per gli standard odierni. Mentre nel 2021 un utente medio che apre Internet (o una App) può spostarsi esclusivamente tra zone commerciali disegnate per attirare e mantenere il più possibile la sua attenzione – con ogni mezzo necessario. Gli ambienti a bassa pressione (commerciale, interattiva, pubblicitaria, ecc) sono sempre meno, e gli spazi liberi sono praticamente scomparsi.
Un tema di attualità: sembrerebbe dimostrato che Facebook anteponga i profitti alla sicurezza, e perfino alla sanità mentale, dei propri utenti (comprensibilmente, trattandosi di un’azienda e non di una ONG). Molti utenti se n’erano già accorti, adesso pare che Zuck avesse anche le prove. Però, malgrado abbiamo conosciuto tutti la mortificazione dello scroll infinito e dello stalking pubblicitario multi-piattaforma, si continua a perpetrare un equivoco forse comprensibile ma molto pericoloso: considerare i Social come luoghi pubblici. Gli indizi sono vari: dall’indignazione per i blackout alle proteste per le sospensioni, in molti sembrano convinti di avere dei diritti: “Eh, ma questo è troppo! Non si può! È inaccettabile!” In che senso? Sei a casa di altri e ci sono delle regole (nebulose e talvolta infami), ma soprattutto quello spazio non ti è concesso per farti esprimere, ma perché i tuoi contenuti sono organici a una piattaforma il cui motivo primario di esistenza è far guadagnare soldi ai propri azionisti – sacrosanto ma inconciliabile con l’idea di “Piazza virtuale”.
Sulle possibili soluzioni la questione si biforca. Da un lato regna l’irrazionale: chiedere dei diritti su Instagram, rivendicare quello spazio (ma soprattutto quella tecnologia) come “del popolo”, protestare contro l’ingiustizia di certe sospensioni. Tutte idee che ignorano le Condizioni d’uso (Bibbia dei nostri rapporti coi giganti del web, qui trovi quelle di Facebook) e non tengono conto del motivo per cui le piattaforme sociali esistono, della loro struttura societaria e del loro scopo. Per fortuna c’è un altro livello più promettente: regolamentare i Social Media per legge, precisando cosa possono e non possono fare, cosa devono dichiarare e condividere e quali sono le pene per eventuali trasgressioni. Questo naturalmente ha un risultato bifronte: limita il raggio di azione e quindi il potere persuasivo dei Social, ma rende l’esperienza dei medesimi meno gratificante e fluida (vedi gli avvisi dei cookie, obbligatori nell’UE), più realistica e consapevole, come si fa col tabacco: “Attenzione, questo sito nuoce gravemente alla salute mentale: maneggiare con cautela”.