Uno degli aspetti notevoli della cultura Pop è la sua capacità di includere praticamente qualsiasi cosa, dal Papa a Charlie Manson, fino a Aristotele (nella foto) e perfino Niels Bohr, premio Nobel per la fisica danese. Naturalmente si tratta di cultura Pop, quindi la relazione con la realtà, e perfino con la cultura generale, è tenue e a volte inesistente. Non si analizza la teologia di Bergoglio, l’universo culturale della Manson Family, il concetto di Etere o la teoria dei Quanti. Si prende una scheggia, un fatto, un aspetto e ci si costruisce uno stereotipo: il Papa dei poveri, la bestia di Satana, il filosofo barbuto, lo scenziato distratto. Non mi pare un fatto totalmente negativo: un aspetto della cultura Pop è quello di individuare dei personaggi e fargli ricoprire dei ruoli. Per poi costruire un teatrino della realtà col quale possiamo giocare insieme, riempiendo gli spazi vuoti con le nostre opinioni. Chi parla del (povero, incolpevole) figlio di Fedez/Ferragni non sta parlando dello sventurato pargolo, e nemmeno dei suoi genitori. Parla di sé utilizzando dei “luoghi comuni”, un termine affascinante e ambiguo che ha un connotato linguisticamente negativo, ma urbanisticamente attraente. Quindi questi personaggi diventano marionette che servono a farci parlare di noi, in un luogo comune.
Il ruolo dei media in questo meccanismo è centrale: spesso il luogo comune nasce dalla semplificazione giornalistica, dal titolo a effetto, dai maledetti 140 caratteri. Se devo raccontare il Papa in tre parole, la definizione è Papa dei poveri, con buona pace delle sue articolate opinioni. Naturalmente esiste il rischio che lo stereotipo prenda il sopravvento, fino a modificare la narrativa reale. La comparazione tra Comunismo e Nazi/fascismo non sta in piedi nemmeno se la impalate. Proprio non regge – tranne in un caso: che dobbiate descriverla in sette parole. Ma già se fossero 14 non reggerebbe. Ecco: se oggi chiedete in giro, c’è un sacco di gente per cui quelle sette parole sono una verità storica incontrovertibile.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, una figura è entrata subito al numero 1 nella top ten del male, facendo fuori Attila, Gengis Khan e perfino Satanasso: Adolf Hitler. Il quale ha tutto che non va: la faccia da pazzo, l’occhio strabuzzato, l’eloquio psicotico in una lingua che se non la capisci sembra minacciosa, l’adorazione delle masse, un corpo diminutivo, l’amante giovane, la malvagità delle SS, i campi di concentramento, lo sterminio di milioni di persone, la fine ingloriosa, il cadavere mai ritrovato. Un plot perfetto (e assolutamente veritiero) per incarnare il male definitivo. Non a caso Hitler è il personaggio più presente nelle Tv di tutto il pianeta: in questo momento nel mondo ci sono milioni di case dove c’è Adolf che strilla. Ormai per molti è una presenza quotidiana, una sorta di pupazzo malvagio, il prototipo del dittatore senza pietà – in versione cartoon.
Attenzione: io sono convinto che tutto questo sia giustificato da verità storiche incontrovertibili. Non solo, ma in un mondo in cui ci sono i neo-nazi, ripeterle mi pare un bene. Mi chiedo però se la verità che esce da quei milioni di televisori sia frutto di ricerche storiche o una sintesi giornalistica, cioè cultura Pop – che è il pane quotidiano della Tv. E mi domando se sia il caso che questioni immense come la Shoah, o la Seconda Guerra Mondiale, diventino parte di una narrativa Pop del bene contro il male. Che funzionava negli anni della guerra, e magari aveva pure senso, ma che oggi rischia di produrre appiattimento, ridurre Adolf a una buffa macchietta malvagia e ritrovarci tutti sempre e solo nel luogo comune. Revisionismo? Per niente, anzi. È che la cultura Pop funziona per le cose semplici come Fedez o il Papa, ma molto meno per fenomeni complessi come la fisica Quantistica, il pensiero di Foucault, il tragitto poetico di Curzio Malaparte, L’Epistemologia o la terrificante, nefasta ascesa al potere del Nazismo.