Nel Rap dipinto di blu

Non passa settimana senza che mi ritrovi a felicitarmi per lo stato di salute del Rap italiano, anche se devo confessare che all’inizo non ci avrei scommesso. Chi scrive ha iniziato a cimentarsi in proprio con questo genere all’inizio degli anni ’80 (1984, per la cronaca), un’era nella quale non solo il Rap era diverso, ma l’idea che si potesse farlo credibilmente in italiano pareva una fantasia assurda. La nostra lingua sembrava avere troppe sillabe, troppi accenti obbligati (tranne per Max Pezzali, che nelle sue canzoni ha deciso di ignorarli col risultato di suonare come un tredicenne albanese dislessico, imprigionato nel corpaccione di un quarantenne pavese) per potersi snocciolare fluida come l’inglese afro-americano. Poi è arrivata la stagione delle Posse, che ha avuto tantissimi difetti ma anche il merito fondamentale di sdoganare la lingua italiana, e di mostrare come potesse scorrere e incastrarsi amabilmente su un ritmo, con diletto della mente e insieme delle ginocchia. Dischi come il primo album dei Sangue Misto, SXM del 1994 (recentemente ristampato), non hanno solo dettato le regole del genere da lì in poi, ma hanno anche mostrato a un’intera generazione di musicisti le potenzialità ritmiche della nostra lingua; non è un caso che quegli anni si ricordino come la stagione della “nuova musica italiana cantata in italiano”. Dai Sangue Misto venne fuori Neffa, che per alcuni anni è stato il miglior rapper italiano, senza rivali; talmente bravo, e così in anticipo, che a un certo punto ha smesso, diventando un (piacevole) cantante. Un peccato, perché di li a poco la situazione sarebbe cambiata.

Ci sono artisti cui va dato atto di aver portato il Rap in superfice, fuori dai Centri Sociali (dov’era nato e ben cresciuto) nel circuito discografico overground: Articolo 31, OTR, Sottotono (primo gruppo Rap a Sanremo nel 2000), Frankie Hi-Nrg (presente all’ultima edizione) – o Jovanotti, che però ha un percorso molto diverso. Questo Rap ovviamente non piace ai puristi, che preferiscono DJ Gruff o Kaos. E qui sta il primo, chiaro segnale del benessere della scena: il Rap italiano ormai è un mondo grande e differenziato, che accomoda stili diversissimi (a volte contrapposti, com’è nello stile un po’ gradasso dell’Hip hop), e finalmente in grado di soddisfare palati diversi – da Oi Maria (Articolo 31) a Quelli che benpensano (Frankie Hi-Nrg) passando per la Rapadopa (DJ Gruff).

Nel 2008 il Rap italiano sta benissimo. Escono dischi ottimi: Fabri Fibra (che è bravissimo e non sbaglia un colpo), Frankie (che sa essere colto e funky insieme), Club Dogo o Caparezza; emergono produttori di alto livello, come Fish, ex Sottotono, autore di molte delle basi di Fibra. O come Gruff, che meriterebbe un numero di Insound a parte, il quale da anni sforna costantemente cose sublimi (sempre un po’ alla rinfusa, com’è nel suo stile). Ci sono almeno tre generazioni di DJ che si dividono la scena, e la DJ culture italiana (anche grazie a quelli più grandi, come Skizo e Next One) è certamente di livello europeo. Il Rap ha finalmente un pubblico, grande e differenziato, che può iniziare magari ascoltando Mondo Marcio, per poi evolversi verso qualcosa di più adulto. Insomma, buone notizie: per accertarvene fatevi un giro in rete digitando i nomi qui sopra. Oppure scaricate l’ultimo bell’album di Esa, figura storica della scena italiana, che da qualche anno ha scelto di distribuire i suoi dischi gratuitamente in rete; si chiama Il Messaggio, e lo trovate sul suo Myspace.

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