Uno dei due corsi che ho tenuto negli USA l’inverno scorso riguardava la relazione tra le arti basate sullo spazio, come la fotografia o la pittura, e quelle basate sul tempo, come il cinema o la musica. Naturalmente esistono anche forme di espressione che impiegano simultaneamente spazio e tempo (come le installazioni multimediali), ma questa separazione non solo c’è ancora, ma mi sembra un ottimo spunto per molte riflessioni sull’arte. A partire da due domande paradossali: quanto dura una fotografia? Qual’è l’area di un’aria di Verdi?
Le differenze tra queste due modalità percettive sono molte, e davvero grandi. Ecco perché un film può essere pallosissimo mentre è raro che una foto lo sia. Questa è anche la ragione per cui la musica è così popolare tra le arti: è il suo potere sul tempo che la rende magica. Un’ora può essere eterna se ascoltiamo musica che non ci piace, mentre nel caso contrario può letteralmente volare. Di più: la canzone (la forma più diffusa di musica), per via della sua struttura strofa – ritornello (che non solo è ritorno, ma quasi sempre è anche rito), scardina il fluire del tempo, rimixandolo in un andrivieni insieme prevedibile e fantastico – sempre che la canzone sia di nostro gradimento. La sua popolarità, e i suoi effetti sulla psiche, sono però anche la sua condanna nell’epoca della sua riproducibilità: oggi sappiamo benissimo che non solo la musica ha un suo valore funzionale (per esempio fà vendere più merci nei supermercati), ma che funziona benissimo come tapis-roulant ormai praticamente ovunque: non esistono previsioni del tempo senza musica di sottofondo, e perfino le annunciatrici hanno la loro musichetta anti-horror vacui.
La riflessione su questo tema offre altri spunti interessanti, di nuovo a partire da domande: esistono possibili incroci tra spazio e tempo? Può un arte temporale avere esiti anche spaziali, e viceversa? In campo musicale non solo la risposta è certamente sì, ma le implicazioni di questo fattore svelano un meccanismo essenziale in moltissime delle musiche prodotte negli ultimi anni (un buon esempio del contrario è l’Architettura, che induce sensazioni temporali attraverso lo spazio). Sappiamo che esiste un genere chiamato Ambient, che programmaticamente si propone di definire (o ridefinire) lo spazio attraverso il suono. Sappiamo anche di Erik Satie e della sua idea di Musica d’arredo. Ma il discorso mi pare più ampio, e più complesso. Nella musica classica, la ripetizione (uno degli strumenti fondamentali di tutte le musiche Ambient, in modi anche molto diversi) quando c’è non è mai meccanica: cambiano la strumentazione, le armonie o le cadenze. Altre tradizioni musicali invece, come molte di quelle africane o quella afro-americana (ma anche quella indiana, sebbene diversamente) si basano su un breve nucleo, spesso di una sola misura, ripetuto all’infinito. Questa ripetizione definisce uno spazio-tempo, un luogo sonoro nel quale avviene l’azione musicale: penso ai bordoni del Raga indiano, ma anche alla musica della Mbira africana (che in certe tradizioni serve per camminare, a riprova della sua natura spaziale) e il one-note Blues.
Quando ascoltiamo Mannish Boy di Muddy Waters, una delle pietre miliari della musica del XX° secolo, abbiamo un’esperienza percettiva profondamente diversa da quella indotta, per esempio, da una canzone italiana. Qui non c’è il piacere del ritorno, bensì la gioia dello stare in uno spazio acustico che sappiamo non cambierà mai. Non c’è la gioia dell’armonia che si sviluppa, bensì una lieve ipnosi dovuta alla ripetizione, della stessa natura di quella indotta dalla musica curativa, quasi sempre priva di armonia e con una struttura rigidamente circolare, come la taranta salentina: davvero insopportabile se non piace (o non cura) ma inesorabile, e insuperabile, nei soggetti sensibili.