Non c’è, ma non si sente

C’era una volta la tecnologia della musica. Ovviamente c’è ancora, ma potenziandosi compie un percorso evolutivo tipico delle tecnologie: scompare, a volte con esiti curiosi. Del telefono all’inizio si è detto che avrebbe sconvolto le nostre abitudini sociali; poi il telefono è scomparso (come interfaccia tecnologico) è l’umanità ha imparato a incazzarsi e piangerci dentro senza più badare al fatto che fosse una cornetta e non la faccia del proprio interlocutore. Nella musica il percorso è ancora più curioso: arriva una tecnologia, e molti lamentano la fine di un’epoca. Poi questa tecnologia diventa d’uso, e ci si accorge che in realtà i cambiamenti sono più complessi del previsto. Quando ho iniziato a suonare, il king della registrazione era il 24 piste analogico. Aveva un suono strepitoso, però 15 minuti di registrazione costavano 170.000 lire (circa 90 euro). Con la comparsa dei primi modelli di registratori digitali senza supporto (i computer, per capirci), molti misero il lutto: è la fine di un’epoca. Magari era vero,ma i vantaggi erano troppo eclatanti; quindi, lentamente ma inesorabilmente, l’hard disk recording è diventato di uso comune, e tutti i trucchi che il digitale ha reso possibili sono diventati uno standard. Con grande gioia proprio di quegli esecutori che in origine si lamentavano.

L’esempio perfetto sono i cantanti: il nastro analogico registrava le voci dando loro una coloritura a volte splendida, e una pasta sonora difficilmente riproducibile in digitale. Però, essendo le piste solo 24 (e dovendoci stare tutti gli strumenti) si riuscivano a tenere due, massimo tre take di voce tra le quali scegliere; o meglio ancora con cui fare il composit di voce, una tecnica che consiste nel prendere le frasi migliori da diverse take per costruire la traccia vocale perfetta. Oggi il limite del numero di take è dato esclusivamente dai limiti della capacità umana di riascoltarle e scegliere: ho visto session con dentro 10, 20, perfino 30 take di voce, registrata di mattina, al buio o sottovoce… certo che il nastro suonava meglio, e che i cantanti dovevano riuscire a farne una buona dall’inizio alla fine. Però nessun cantante oggi sa rinunciare a questa tecnologia.

Abitualmente si pensa che i musicisti classici siano dotati di un’intonazione perfetta; chiunque ci abbia avuto a che fare però sa che non è così. Ho personalmente assistito a sfuriate mostruose per via di un violino calante in una sezione da otto. Oggi è noto che esistono tecnologie per correggere l’intonazione. Costosissimi filtri che, in maniera impercettibile ma in tempo reale, rendono perfetta un’esecuzione magari emotivamente azzeccata ma lievemente stonatella. Che mi pare accettabile per un cantante pop (che oltretutto deve anche essere bello, elegante, etc.) ma non per un musicista: l’intonazione, insieme alla precisione e alla bellezza del timbro dovrebbero essere requisiti fondamentali. Però capita sempre più spesso che i musicisti richiedano l’impiego di intonatori digitali, invece di rifare la parte per bene.

Mi piace? Non so. Da un lato mi sembra che si svilisca un pochino la professione. Dall’altro però penso sempre a chi sosteneva che andare a trovare qualcuno è molto meglio che telefonargli; oggi sappiamo che ambedue le modalità sono praticabili, e diverse. Ecco, forse per la musica è la stessa cosa: eseguire Debussy con l’auto-tune mi pare una mostruosità. Ma se i violini che segano note lunghe sotto all’ultimo imbecille impomatato (incapace di cantare e schiavo delle tecnologie per riuscirci) vengono intonati successivamente, non ci trovo niente di male: è un’industria, e l’industria funziona così. Il trucco è, mi pare, ascoltare altrove.

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