La digitalizzazione dei processi di produzione e distribuzione musicale, oramai in atto da oltre vent’anni, ha generato – tra l’altro – un interessante fenomeno di de-localizzazione del mercato musicale che riguarda da vicino anche l’Italia: una fuga di cervelli quasi invisibile, dove il cervello magari rimane qui ma opera altrove. Fino a pochissimi anni fa’, chi voleva fare della musica un mestiere spesso si trasferiva in una grande città – per molte ragioni: una scena interessante, maggiori opportunità di lavoro, la possibilità di suonare spesso dal vivo, di vedere concerti e performance, ecc. Questo avveniva sia in una dimensione nazionale (io sono venuto a Milano anche per quelle ragioni) che internazionale: abbiamo tutti un amico che si è trasferito a Londra/Berlino/New York per qualcuno di quei motivi, no?
Naturalmente questo processo è ancora in atto, e moltissimi giovani abbandonano questo paese per tentare la fortuna altrove, o più semplicemente esistere in un contesto culturalmente meno rozzo. Non è detto che trovino la prima, ma sul secondo possono stare tranquilli. Esiste poi una piccola fetta di giovani italiani che invece ha sfondato; artisti magari perfino ancora residenti in Italia ma che lavorano gran parte dell’anno all’estero, dove pubblicano il loro materiale, suonano dal vivo – insomma esistono professionalmente. La cosa sensazionale (almeno per me) è che questi artisti non solo sono sconosciuti a molti di noi appassionati di musica, ma che sono anche ignoti alla SIAE, al Ministero dei Beni Culturali e agli Istituti Italiani di Cultura dei paesi dove fanno fortuna – cioè molti tranne il nostro.
Il caso da manuale sono naturalmente i Crookers, duo lombardo di dance che negli ultimi 4 anni si è fatto un mucchio di nuovi amici, nonché clienti (di remix), tra cui U2, Britney Spears, Lady Gaga & Beyonce, Armand Van Helden, Black Eyed Peas e Kelis. Il successo dei Crookers è dovuto a diversi fattori: innanzitutto la bontà della loro musica, un mix assai laico di dance e hip hop, e l’assoluta contemporaneità del loro genere (mentre tradizionalmente in Italia il Pop si copiava, e quindi arrivava dopo). Poi la loro bravura come DJ, che gli consente di girare il mondo e propagare il loro suono. E’ stato il loro primo mixtape, messo in rete nel 2007, a farli emergere, naturalmente all’inizio come fenomeno underground: ecco un ottimo esempio di web marketing naturale ma efficacissimo. Infine, tra le ragioni del loro successo aggiungerei che i due hanno completamente ignorato la discografia ufficiale italiana (che certamente avrebbe consigliato loro di desistere) e in fondo anche la scena locale, presente nei loro album sotto forma di ospiti ma limitatamente ai loro vecchi amici: eppure sarebbe fantastico ascoltare un album di Celentano prodotto dai Crookers.
Di casi come questo, magari meno eclatanti ma per nulla secondari, ce ne sono a bizzeffe, da Bottin, Passarani, Reset, Benny Benassi a Spiller, Picotto e Junior Jack fino a Nicola Conte, che pure in Italia ci ha provato ma funziona assai meglio altrove. Tutte persone per noi preziosissime, e non solo per i cultori dell’elettronica. Infatti, come forse sapete, aldilà della pizza e dell’extravergine, questo paese ha un serissimo problema di immagine, che va dall’assenza di banda larga in intere province all’eclatante volgarità della tv. A proposito dei Crookers, i Chemical Brothers hanno dichiarato: “The Italians are something to look out for”. Una volta tanto ci osservano per un motivo nobile – e vivente.