A noi amanti della musica periodicamente ci tocca sentire, e talvolta leggere, l’annuncio del decesso di qualche genere o fenomeno Pop. È toccato quasi a tutti: il Rock, il Punk, gli anni ’60, la Disco, la New Wave, lo Skate, l’Hip hop. Di solito chi annuncia queste dipartite è addolorato, indignato, oltraggiato – insomma ce l’ha con qualcosa o qualcuno che a suo dire sarebbe l’assassino. E molto spesso contrappone il passato genuino, autentico, vero, al presente molle, plasticato, falso. Vuoi mettere i Clash? Naturalmente in molti casi gioca un fattore generazionale, ma non sempre: sono molti i giovani che, alla ricerca di un candore primigenio, tendono a considerare il passato come più sincero del presente.
Questa dinamica esiste dalle origini della cultura Pop moderna, diciamo dal 1900 in poi. Quando nel 1946 Hugues Panassié (noto critico francese) pubblica il controverso libro The Real Jazz, la sua teoria è proprio che il vero Jazz è morto qualche anno prima “intellettualizzandosi”. Cosa dire del Punk? C’è chi l’ha dichiarato morto quasi subito, cioè quando ha iniziato a acquisire un minimo di visibilità e diffusione. La stessa cosa è successa dopo la Second Summer of Love, la stagione inglese di House & Ecstasy che ha chiuso gli anni ’80. L’Hip hop si dota addirittura di un termine, Old School, per distinguere il passato (verace, buono, epico) dal presente, che forse è bello ma magari invece no. Inoltre, essendo l’Hip hop un genere antico, ha almeno tre Golden Age alle quali fare riferimento per poi dichiarare peggiore tutto quello che è venuto dopo (o invece approvare se ci somiglia). In tutti i casi si tratta della stessa idea: rivendicare la purezza originaria.
Curiosamente però tutti questi necrologi sembrano ignorare una regola cardinale della cultura Pop: niente muore mai davvero, tutto torna sempre. Si tratta di un fattore scritto nel DNA del Pop, il cui tragitto è molto spesso simile anche in stili lontanissimi. Di solito una cultura Pop nasce underground, spesso in uno o più piccoli gruppi di persone molto intensamente dedicate a quell’attività (il Writing, la Techno, i Mod, il Rap, ecc.). Se quell’attività/stile/genere ha attrito si diffonde, e il numero di persone si allarga; da un lato è un fatto positivo (la cosa funziona), ma poi c’è sempre un distinguo. Talvolta lieve (un buon esempio è il rapper principiante oggetto di sfottò) altre volte invece drammatico: era meglio prima, questi sono modaioli, dei Ramones non gliene frega niente, dimmi tre titoli, il Rock è morto. Questa frattura si allarga con l’aumento del successo di un genere/stile, fino al paradosso: “Mio figlio ascolta Punk come me quando avevo la sua età, ma il suo non è VERO Punk”. Poi, raggiunto l’apice, perfino i fenomeni di grande successo tendono a tramontare. Ma non vanno mica a morire dignitosamente in un bel cimitero di elefanti Pop. Macché: si mettono tranquilli e aspettano il giro. Che torna sempre in un modo o nell’altro: nella moda, nella musica, nelle culture Pop niente muore mai.
Men che mai nel 2022. La rete ovviamente gioca un ruolo essenziale in questa dinamica di eterni ritorni. Una rete che si sviluppa in un contesto culturale già profondamente Postmoderno, e che favorisce (anche grazie alla tecnologia digitale) l’accostamento, l’assemblaggio, il remix, il ripescaggio random dove niente e nessuno sono fuori gioco (vedi il ritorno di Kate Bush). E il futuro promette bene, o malissimo se preferite. Gli Abbatar sono la testa di ponte di una schiera di non morti, di quasi certamente deceduti o sicuramente trapassati, di zombie con chitarra, di mortacci nostri che ci perseguiteranno per sempre. Spettri del Pop, attaccati a una macchina che ne succhia l’essenza e la pompa dentro l’avatar di Elvis, di Tupac e prossimamente della vostra salma preferita, mentre dall’apposito orifizio zampilla una fontana di denari. Altro che morti.