Pane e © per tutti

Uno degli slogan del 2005 è “Meno Copyright!” Ma non è solo la vittoria dello spirito libertario della rete. E’ sempre più chiaro che i prodotti culturali sono come i bambini: a proteggerli troppo gli si impedisce uno sviluppo sano e regolare.

La rete sta rivoluzionando il copyright. E’ ormai evidente che le vecchie regole non reggono la diffusione planetaria di contenuti e la crescita esponenziale di cose proteggibili: blog, pagine personali, perfino le webcam producono byte che generano automaticamente dei diritti. Questo ha creato dei paradossi: quindicenni che parlano del loro gatto Ozzy e dei Blink 182, con la dicitura “Tutti i contenuti sono ©. Ogni abuso sarà punito”, o immensi, logorroici blog con 4 visitatori al mese e il disclaimer: “In nome della libera condivisione, i contenuti di questo sito sono concessi in libero uso al popolo della rete”, che però si guarda bene perfino dal leggerli. In realtà non avrebbero torto; la legge, ovviamente scritta pensando ad altro, dice che (salvo diverse disposizioni) qualsiasi cosa venga da noi prodotta è “nostra”, quindi niente duplicazione o ridistribuzione a qualsiasi titolo: tutti i diritti riservati.

Ma perché mai qualcuno dovrebbe voler cedere dei diritti? E’ una questione complessa. Innanzitutto è la natura della rete, che nasce come strumento di condivisione; qualsiasi cosa noi vediamo online possiamo clonarla e ripiazzarla altrove: un buon sistema per condividere dati scientifici e tecnici. Questa etica, trasmessa dalla tecnologia anche grazie al Free Software, ha fatto breccia nella Internet generation. Poi c’è la questione degli esordienti: chi inizia è così interessato a favorire la circolazione delle sue cose che baratta volentieri un po’ di copyright con la possibilità di allargare il proprio pubblico. Ma c’è di più. All’inizio le Major avevano grandi difficoltà a concedere a siti come Amazon dei sample da trenta secondi, che invece ormai sono la norma. Perdura invece una situazione ambigua coi trailer e gli spot. Prodotti spesso molto curati e costosi, sono protettissimi da copyright, ma da qualche anno circolano in rete come oggetti di culto. Buffo, no? Della pubblicità che la gente vuole vedere a tal punto da digitalizzarla, scambiarsela e collezionarla. Solo da poco chi detiene questi diritti ha capito che la libera circolazione ne moltiplica l’effetto all’infinito, ed ha iniziato assai cautamente a distribuirli. Ma è solo l’inizio: tradizionalmente le discografiche danno i singoli alle radio, sperando che vadano in heavy rotation: questo a volte brucia il pezzo, che lo senti ovunque e non lo devi comprare, ma magari spinge l’album. Allo stesso modo non sarei sorpreso se il passaggio televisivo di un film ne facesse aumentare le vendite in Dvd, con contenuti speciali, scene tagliate, commenti, ecc. o se in futuro i singoli pop venissero direttamente regalati.

Molto oggi si muove sul fronte del ©: diverse le proposte, da quelle istituzionali come Creative Commons (creativecommons.org) a quelle grassroots, ma a volte sorprendentemente realistiche, come Copydown (che comprende una decina di etichette italiane). E se la seconda almeno per adesso si muove localmente, la prima ha già avuto la benedizione di un governo (quello Brasiliano, grazie al ministro-musicista Gilberto Gil) ma, cosa più importante, quella delle Major che hanno consentito ad artisti come i Beastie Boys di partecipare alla compilation di Wired, rilasciata con una licenza che consente la condivisione e in certi casi il campionamento. Sono i primi benefici effetti di un’idea, quella del meno copyright, che oltre ad essere sacrosanta inizia ad essere conveniente. E l’ennesima dimostrazione, dopo Napster e i suoi figli legali, che in rete gli utenti mostrano la via e le corporation seguono, a debita distanza – almeno finora.