C’era una volta Napster: ve lo ricordate il comodo servizio di scaricamento illegale di file? La formazione cultural-musicale di molti lettori è accaduta proprio lì. Poi Napster fu comperato da una major discografica, sterilizzato e convertito in un servizio a pagamento talmente barzotto che è sostanzialmente sparito dalle mappe – benché esista ancora. Il motivo di questa mossa era ovvio: interrompere il flusso di scaricamenti gratuiti, e stabilire una volta per tutte che la musica non può essere gratis. Come sapete se leggete Rumore da allora, io ho tenuto una posizione intermedia: comprendendo le ragioni degli scaricatori selvaggi (chi vorrebbe comprare un intero best degli Unbelievable Cazzons per avere il brano inedito, quando può comodamente scaricarselo gratis da internet?) ma anche quella dell’industria, che è fatta anche di piccoli musicisti come me, e non solo da squali miopi e epilettici ma con denti affilatissimi – i discografici e le loro aziende.
Poi è arrivata Apple, che sfruttando la scarsa favella delle Major, e il panico da file sharing, si è inventata l’Itunes Music Store. Che fin dall’inizio è stata un’impresa problematica. Nei primi anni di vita di questo servizio non era possibile per un singolo artista vendere la propria musica. Comprensibile: se la Apple avesse rubato il lavoro ai suoi fornitori non sarebbe stato bello. Nemmeno le indipendenti potevano avvalersi di questo servizio: la Major le hanno sempre considerate delle loro agenzie, che facevano il lavoro sporco di talent scouting e poi, una volta lanciato un’artista, lo passavano a loro. E’ successo molte volte – per esempio coi Nirvana. Inoltre i clienti disposti a mollare i 99 centesimi a Itunes si ritrovavano con un ulteriore problema: il meccanismo anticopia. Un arzigogolato sistema di permessi, che rendeva la vita complicata proprio ai migliori clienti di Apple: quelli col fisso, il portatile e l’Ipod, che dovevano de-autorizzare una macchina per autorizzarne un’altra, e se per caso avevano un problema informatico, le prime vittime erano proprio quei maledetti file. Questo sistema funzionava talmente male che Apple lo ha definitivamente eliminato lo scorso anno. Anche perché nel frattempo sono arrivati nuovi e-shop, la maggior parte dei quali però funziona solo negli Usa. Quindi noi europei restiamo nelle mani di Itunes; personalmente ho avuto modo di testare anche Amazon, che ha un paio di vantaggi: ci vado col mio browser e scarico file Mp3, con cui si può fare quella bella cosa che da sempre è uno dei motori essenziali della musica pop: le compilation per gli amici, una volta su cassetta, oggi comodamente inviabili da PC a PC via bluetooth. Nel 2010 la situazione è però tutt’altro che risolta. Oltre alle solite piattaforme Peer to peer, oggi ci sono i servizi di file delivery come Megaupload o Rapidshare. Leggevo da qualche parte che una notevole percentuale di scambi di musica oggi avviene attraverso questi siti, che consentono di parcheggiare file grandi per periodi determinati, e poi linkarli sul proprio sito o blog. Insomma: fatta la legge, trovato l’inganno.
Chiudo con un aneddoto. Ho sentito per radio “Sing our own song”, singolo dell’86 degli UB40, e ne volevo la versione integrale (circa 7 minuti). Siccome sono un bambino beneducato, e mi trovo negli USA, ho pensato di comperarlo. Vado su Amazon, dove scopro che non tutte le canzoni sono uguali: questa non costa 99 cent come le altre, bensì 1.99 – essendo una hit. A 99c c’è la versione breve. Incredulo vado su Itunes, dove l’offerta è ancora più stolta: “Sing our own song” viene data esclusivamente in omaggio a chi si compera l’intero album (a 7.99). Allora ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque: Google, nome del brano + mp3, e l’ho trovato immediatamente. L’ho scaricato? No: ho comperato su Amazon il CD usato a $ 3 (inclusa la spedizione). Alla faccia delle Major, che ancora una volta si dimostrano incapaci di comprendere come gira il mondo, e non solo.