Uno degli effetti collaterali dell’insegnamento in un corso sul suono (quello di Sound Design dello IED di Milano), è quello di verificare con mano la scarsa, e spesso nulla, abitudine all’ascolto degli studenti. Certamente amano la musica e il suono, ma sono completamente a digiuno di qualsiasi elemento di ascolto attivo e consapevole. Ovviamente questi è il prodotto di un sistema scolastico che non prevede questo insegnamento; la cosa risulta vieppiù spettacolare – e urgente – nel 2007 quando, grazie all’informatica onnipresente, ogni ragazzo ha in casa un piccolo studio di registrazione. Oggi una buona infarinatura di teoria e storia sarebbero davvero utili, potrebbero essere impiegate immediatamente e dare subito risultati visibili, o meglio udibili.
Ma un’altra ragione di questa disabitudine all’ascolto attivo è legata a una questione tecnologica piuttosto interessante. Una delle operazioni più delicate nella filiera produttiva della musica pop è il Mastering, la finalizzazione per la pubblicazione della musica, una volta ultimate le registrazioni. Questo procedimento, attraverso l’impiego di compressori, espansori, equalizzatori e altri effetti, serve a perfezionare la resa sonora della musica, correggerne eventuali imperfezioni nel timbro e massimizzarne il volume. Nella riproduzione analogica questa ottimizzazione del livello era essenziale, essendoci un rapporto segnale/rumore piuttosto alto: era quindi necessario che il volume della musica fosse il massimo possibile. Oggi è assai meno rilevante: grazie alla riproduzione digitale il rumore del supporto si è ridotto a zero. Curiosamente però, proprio grazie alla tecnologia digitale, oggi abbiamo degli strumenti potentissimi per la masterizzazione: compressori dinamici, equalizzatori precisissimi, normalizzatori e sonic maximizer di molti generi. Il procedimento è tutto sommato semplice: un computer calcola il picco massimo di una canzone e poi alza il livello di tutto il resto, se è il caso schiacciando (quindi comprimendo e/o espandendo) verso l’alto le parti con minore volume. L’effetto di questi procedimenti, spesso radicali e brutalmente impiegati (come in certa dance molto commerciale), è quello di un volume altissimo e di una quasi totale mancanza di dinamica. Per accertarsene basta acquisire in un PC due file musicali – per esempio Who knows? di Jimi Hendrix (pur rimasterizzato in digitale) del 1970 e SexyBack di Justin Timberlake del 2006. Nel primo troviamo una dinamica molto varia, e molti decibel di differenza tra il picco massimo di volume e le parti più quiete. Questi dislivelli obbligano l’orecchio a un ascolto molto più attivo, e producono un effetto molto diffuso negli anni scorsi: la scoperta, anche dopo ripetuti ascolti, di parti nascoste, suoni sepolti che contribuiscono all’effetto globale. SexyBack invece, pur essendo un brano per certi versi strabiliante (la programmazione della ritmica è davvero superlativa), è praticamente privo di dinamica, il divario di volume tra i singoli suoni è irrisorio, e la sua forma d’onda nel computer ha un aspetto caratteristico – che alcuni chiamano “Il Panettone”: un rettangolo pieno, sparato al massimo, senza alcuna dinamica.
Gran parte della musica prodotta oggi è trattata secondo questo procedimento; che se da un lato certamente garantisce una resa potente, specialmente per radio o in discoteca, dall’altra sta disabituando a un ascolto più interattivo e partecipativo. E sta facendo dimenticare uno degli effetti più belli e efficaci della musica: il pieno dopo il vuoto, e viceversa. Viviamo in un mondo dominato dall’horror vacui: che ci faccia paura perfino il silenzio tra una nota e l’altra però fa un po’ ridere.