Poter essere tutto

Stavolta vorrei parlare di un tema controverso. Talmente controverso che inizio con una precisazione: detesto la violenza, i metodi di Isis mi fanno orrore e il suo progetto di califfato globale mi pare terrificante. Su questo tema c’è un dibattito (nei media innanzitutto, e poi nella politica) su cui vorrei dire la mia. Ci si chiede: come mai molti giovani musulmani cresciuti in Europa, la lasciano per andare a combattere in Siria e Iraq? Cosa rende attraente per alcuni di loro (non tutti naturalmente, anzi) una scelta così radicale?

Mi pare una domanda allo stesso tempo facile e difficilissima. La prima parte mi viene spontanea. Sono persone nate qui, quindi al 100% europei, da un punto di vista culturale: pensano in una lingua europea, leggono i giornali, guardano la tv, frequentano le scuole. E molto probabilmente sognano un futuro diverso, migliore – come tutti noi. Loro però spesso vengono da contesti culturali diversi dai nostri – ma curiosamente simili a quelle degli emigranti italiani di una volta. Chi emigra e si integra, come la stragrande maggioranza degli stranieri in Europa (o degli italiani negli USA), tende a non criticare la società che lo ha accolto; vuole essere un buon cittadino e guadagnarsi il rispetto della comunità. Questo spesso lo porta a non soffermarsi sugli aspetti negativi, come il razzismo o la scarsezza di diritti, per concentrarsi – anche nell’educazione dei figli – su quelli positivi. In fondo chi emigra ricorda bene come mai se n’è andato (anche se a volte ha un rapporto assai sentimentale col paese di provenienza). Chi è nato altrove invece non solo non ricorda, ma vive una difficilissima condizione: non è più italiano (o nigeriano, in Italia) ma nessuno, se non chi è come lui, lo tratta come un connazionale, nel paese in cui è nato. Rispetto ai suoi coetanei locali, lo sappiamo tutti bene, non ha soltanto meno possibilità, ma resterà straniero a vita – e in molti casi il suo destino è già scritto. Gli italiani in America vendevano la frutta, e ci sono volute generazioni per uscire da questo destino ineluttabile. La stessa cosa sta succedendo oggi in Europa.

C’è anche un altro aspetto, magari marginale ma forse invece no. Per i giovani immigrati in Europa, mi sembra molto difficile integrarsi anche da un punto di vista “stilistico”. E’ assai raro che un figlio di tunisini nato in Italia diventi, per dire, un hipster. E non perché quello stile non rientra tra i gusti tunisini (un’idea molto razzista, a pensarci bene), ma perché ha già un’identità “forzata” (nato a Brescia, “marocchino” a vita) che inevitabilmente condizionerà moltissime delle sue scelte culturali, e restringerà enormemente la paletta delle sue possibilità. Questa è una condizione terrificante, se ci pensate un momento. Ecco: Isis offre a questi giovani un congegno culturale perfetto. C’è il radicalismo, che li mette in conflitto sia con le proprie famiglie “integrate”, che con la società europea in cui vivono. C’è un’idea epica di esaltazione e fratellanza (che non mi pare così diversa da quella dei nostri partigiani). E offre loro una via autonoma per rifiutare violentemente la condizione di fuori-casta che vivono nel proprio paese, cioè qua. Il moltiplicarsi di ragazze con l’hijab nelle città europee secondo me dice anche questo: è uno stile autonomo, radicale e dissenziente, non tanto diverso dai capelli lunghi degli anni ’60.

La parte difficile ruota intorno alla domanda: cosa possiamo fare? Perché questo conflitto culturale si risolve soltanto se ognuno di noi fa la sua parte, tutti i giorni. Un esempio: combattere tutti i razzismi, anche quelli positivi. Non è vero che i filippini fanno bene le pulizie, o che i pakistani sono bravi negozianti. Possono anche essere ottimi chirurghi, o cantanti punk. E capire che la frase “ho un amico algerino” contiene un piccolo veleno: lo condanna a uno stereotipo, a essere quello a vita. Mentre lui, come te e me, ha il diritto di immaginare di poter essere tutto.

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