L’ossessione contemporanea per l’alimentazione è immensa e variegata. Non solo in Italia: tra un Jamie Oliver e un Master Chef, nessuno si fa mancare più niente. Siti come Tripadvisor sono diventati punti di riferimento in un mare inestricabile di offerte: il Cino-sudamericano, il Finlandese fusion, il Veg gourmet minimo 300 euro, vino escluso. Tra Granaglie esotiche, Lattughette autoctone e Salumi del Perù, nei supermercati se non hai Google sei perduto. Niente di strano, se stessimo parlando soltanto di cibo.
Da sempre ogni questione legata al mangiare è anche una questione politica. Pensate alla differenza di dieta (la varietà, ma anche la quantità di proteine e vitamine) tra i ricchi e i poveri nel corso della storia. Solo dagli anni ’50 si è raggiunta una certa parità. Ma naturalmente ci sono ancora immense differenze tra chi può scegliere e chi no. Ecco come mai colpisce la scelta di Donald Trump di mangiare cibo da Fast food: potrebbe permettersi un pollo fritto fatto alla perfezione e invece ordina, e mangia con gusto, un bel secchio di quello dozzinale. O alla Cucina Italiana, che naturalmente è un’invenzione geopolitica – di Pellegrino Artusi, nell’immortale La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene: “Il libro, scritto due decenni dopo l’unificazione dell’Italia, fu il primo ad includere in un unico volume ricette culinarie di tutte le regioni italiane. Per questo gli viene attribuito il merito di aver posto le basi per la formazione della cucina nazionale italiana”. O la curiosa geo-economia del cibo: fino a qualche anno fa, nelle occasioni speciali, i borghesi (e i ricconi, si diceva, tutti i giorni) preferivano cibi esotici: aragosta, caviale, frutta tropicale. Oggi, per chi può, è più cool preferire alimenti a km zero, verdura dell’orto, olio bio, insomma quello che si definisce, con una definizione molto politica, Cibo Mediterraneo. Che per nostra fortuna è diventato un business.
Poi abbiamo il meraviglioso mondo dei Cooking Show, gli Chef stellati, l’impiattamento (una parola sciagurata e impronunciabile). Governato da un’idea recente, e strepitosamente politica: il cibo non serve a sfamarsi. E’ un’esperienza sensoriale, una successione di sensazioni, profumi e sapori che inebria lo spirito. Mi pare assolutamente lecito. Forse un filo perverso in alcuni suoi aspetti, ma chi sono io per giudicare? Però non posso non accorgermi che questa enorme attenzione per il cibo, gli accostamenti, le diverse consistenze, è distante milioni di anni luce dall’idea base di nutrirsi. Che ancora oggi è un problema per una vastissima parte della popolazione mondiale, alla quale spero nessuno racconti che noi quassù usciamo pazzi per lo Spumone di Branzino del Baltico alla Quinoa, con Pepe del Madagascar e Cipolline di Provenza. Ma non un bel piatto: due bocconcini, per fare un’esperienza sensoriale. Il punto non è mandare lo Spumone ai bambini affamati. Il punto è avere ben chiaro cosa si sta facendo, dove si sta andando, e cosa si sta dicendo di se; giusto per capire dove ci si trova nel panorama del mondo (e magari smettere di lamentarsi). Perché nel 2018 ogni scelta alimentare è implicitamente anche un gesto sociale.
Come sa bene la nutritissima schiera dei Vegani e i Vegetariani. Che spesso sono tali per ragioni profondamente politiche, e come dargli torto? La filiera della carne è orribile, e battersi per una industria meno bestiale mi pare una battaglia molto sensata. Credo che semplicemente avere coscienza di quanta carne si mangia ogni giorno senza pensarci (fettina, ragù, prosciuttino, hamburger, salametto, ecc.) sarebbe un passo avanti. Ma ovviamente c’è chi pensa che si debba smettere del tutto. Essendo noi umani tecnicamente onnivori, questo è possibile ma non esattamente “naturale”: è una forzatura culturale alla nostra natura di esseri umani. Che va benissimo, ma va vista per quello che è: una scelta innanzitutto politica, e poi alimentare. La nostra spesa, oggi più che mai, racconta chi siamo, in cosa crediamo e forse anche cosa sogniamo.