Prima di noi

Continuo a ricevere segnali, di lettori di Rumore e di persone in generale, che si dicono interessate alla cultura alternativa degli anni ’60/’70. Da un certo punto di vista mi pare anche prevedibile: è all’interno di questa cultura che nascono le musiche che piacciono a noi; anzi, qualcuno potrebbe perfino sostenere che la cultura alternativa si nutra proprio di certa musica, e non avrebbe tutti i torti. La cosa interessante però, almeno per me, è che oltre alle questioni più scontate come il rock o i grandi raduni, molti si interrogano sulla letteratura, il cinema e la stampa underground: le forme di espressione che insieme alla musica sono state le voci di questa cultura.

Lo confesso: ero tra i capelloni che si aggiravano scalzi, drogati e felici ai festival italiani degli anni ’70. Dal ’73 in poi a Roma non me ne sono perso uno. Ho fatto anche un paio di estati di fuoco tra Umbrie Jazz e di Parchi Lambro, Free Jazz e readings di poeti. Molti miei coetanei rimpiangono quegli anni, ma non io. Anni interessanti, non c’è dubbio, ma non più di questi – a mio modo di vedere. Quindi non aspettatevi l’apologia dei bei vecchi tempi: erano anni difficili, frustranti e cupi (non a caso il mio step successivo è stato il punk). Avevano certamente alcuni lati positivi che vanno ricordati, ma lo faccio senza nostalgia (che in generale è una pessima abitudine).

Almeno in un aspetto però mi pare che le cose fossero davvero diverse: esisteva una cultura alternativa vivente, di cui sentivamo di far parte e della quale ci nutrivamo. Questa appartenenza ci veniva trasmessa dagli amici più grandi (quelli che poi vennero definiti i Cattivi Maestri) per i quali era quasi un dovere iniziare i più giovani alle meraviglie di questa cultura. Le droghe? Anche, ma non solo. Innanzitutto veniva la musica: quella psichedelica (Tangerine Dream e Pink Floyd su tutti, ma anche Popul Vuh, Terry Riley e Lamonte Young), il rock (dai Beatles, passando per CCR, Who e Hendrix fino ai Soft Machine, Zappa e Gong), il jazz di quel periodo (Miles Davis e Weather Report, insieme a Don Cherry, Coltrane e l’AEOC) e quello da cui derivava (Charlie Parker ma anche Monk, Lee Konitz e Eric Dolphy).

Intrecciate alla musica c’erano altre due cose importantissime: il cinema e la lettura. Ho avuto il privilegio di avere quindici anni nell’epoca dei cinema d’essai, che costavano l’equivalente odierno di 2 euri e programmavano ogni giorno un film diverso. Grazie ai miei cattivi maestri ho fatto un pieno di cinema che ancora ci campo (infatti non ci vado molto spesso): i contemporanei intanto, Jodorowski, Leone e Antonioni (ho visto Zabriskie Point mille volte) ma anche Pasolini e il miglior Fellini (Satyricon), Hopper, Scorsese, e Peckinpah. E poi quelli della generazione precedente: Bunuel (per me un capo), Bergman (che si sbadiglia un po’, ma “Il settimo sigillo” è pazzesco) e perfino John Huston.

Alla lettura ci pensava innanzitutto Marcello Baraghini, che io periodicamente candido alla Presidenza della Repubblica. Stampa Alternativa, la sua casa editrice, ci parlava della nostra cultura, facendo circolare milioni di idee (alcune furiose, altre molto sensate). Dall’immortale “Riprendiamoci la musica!” (capitolo uno: “Lotte creative ai concerti”) al primo manuale per coltivare la Canapa passando per quasi tutto il resto. E poi i grandi del ‘900: Burroughs (a cui devo molto), Withman, Genet e Kerouac fino a Borges, Foucault, Abbie Hoffman e Ray Bradbury.

Badate: non sono tutte voci dell’underground. Ma il bello della cultura alternativa degli anni ’70 era di saper riconoscere certi segnali e connettere dei mondi, anche a dispetto dei mondi stessi.

Come avrete notato ho fatto un sacco di nomi, un po’ anche per dimostrare che i tempi in cui viviamo sono belli: infatti se andate su internet e li digitate dentro Google o Winmx (nel caso di musica o ebooks) potreste passare un’interessante settimana alla scoperta delle radici della cultura alternativa degli anni ’60/’70 – in una maniera all’epoca veramente impensabile.