Ci sono alcuni aspetti meno ovvi ma non meno interessanti nell’attuale mobilitazione studentesca sul clima. Innanzitutto un aspetto di politica spiccia: chi intercetterà i voti di questi giovani che oggi non votano ma domani invece sì? Alle europee i Verdi italiani hanno ottenuto solo il 2,2%. Peccato, perché invece in quel parlamento c’è una folta delegazione di Verdi di molti paesi. È possibile che i partiti ambientalisti italiani si mobilitino per avere più successo nel prossimo futuro? Io me lo auguro, soprattutto a livello europeo si può fare molto per l’ambiente.
Poi c’è un aspetto meno evidente ma che forse avrà una sua ricaduta. Se è vero che la natura lasciata sola trova sempre un proprio equilibrio, allora possiamo dire che l’inquinamento comincia quando l’uomo, grazie all’intelligenza, inizia a allontanarsene: il fuoco, l’agricoltura, la caccia. Naturalmente si tratta di un impatto ancora lievissimo. Poi cos’è successo? Come ci siamo ridotti così? Per via di un concetto semplice che tutti noi ancora percepiamo come positivo: il progresso. Negli ultimi quattromila anni le varie società umane sono state valutate sempre e soltanto per il grado di progresso raggiunto, tant’è che ancora oggi si parla di paesi progrediti e di altri “in via di sviluppo”. Da un certo momento in poi questo progresso è stato sempre più legato all’industrializzazione, alla produzione e al consumo. Ancora oggi un supermercato medio negli USA, paese progredito per antonomasia, sugli scaffali ha il doppio dei prodotti di un supermercato medio italiano. Produrre, esportare, consumare sono tutte cose che rendono una nazione progredita ma inevitabilmente anche inquinata.
Oggi però c’è una generazione che per motivi ambientali si trova a mettere in discussione questo modello di progresso. Mi sembra inevitabile, essendo il principale responsabile delle condizioni del pianeta. E se il giovane per ora si limita a rifiutare la plastica e le cannucce (che quando ero bambino erano fatte di legno, tanto sono antico), a un certo punto magari si farà delle domande sulla presenza dell’anguria nel suo supermercato a febbraio. E forse, leggendo l’etichetta, si accorgerà che quell’anguria per arrivare sulla sua tavola ha preso un camion, poi una nave, poi un treno e un furgone diesel euro zero per un totale di 2000 chilometri. E si chiederà: ma mi serve l’anguria a febbraio? Non preferirei invece delle mele che ne hanno fatti solo 90? E da dove viene la soja del latte del mio cappuccino? Quelle cannucce di legno di cui mi ha detto mio nonno, non potrebbero rifarle? Come mai questo caffè costa 1.99 al chilo? È possibile che un coltivatore possa sopravvivere se dall’altra parte del mondo il suo prodotto si vende a un prezzo così? Abbiamo veramente bisogno di 23 tipi di maionese di cui 11 importati? Domande inevitabili se è vero che ogni rivoluzione inizia da noi. E molto pericolose: non è un caso che Trump minimizzi, i politici indossino la faccia di legno, l’industria corra ai ripari con prodotti “green” che spesso sono patetici tentativi di acchiappare un pubblico oggi più attento. Perché il rischio che corrono è enorme. Rischiano che si affermi un’idea non nuova ma che per adesso ha funzionato solo su scala ridotta. L’idea che il progresso economico non sia l’obiettivo principale della società e che, in quanto consumatori, siamo responsabili di quello che compriamo e quindi anche degli orientamenti economici del mondo, in larga parte. L’ambiente mi sembra solo il primo passo. Si migliora l’ambiente se si smette di sputtanare il pianeta con le coltivazioni intensive, fatte per noi ricchi. Si migliora rendendo migliori le condizioni di vita di quelli che producono i beni che consumiamo, rendendo più equo il commercio mondiale, obbligando le aziende a standard più accettabili, se necessario anteponendo altri valori al progresso, al profitto e all’espansione senza limiti. Idee pericolose, forse sovversive: le mie preferite.