Chiunque voglia capire i Mass media non può che iniziare da Marshall McLuhan, le cui riflessioni oggi in parte superate costituiscono ancora la base del nostro pensare sul tema, perfino in uno scenario nel quale una tecnologia, la rete, oggi sembra contenerli tutti. Eppure alcune delle sue intuizioni sono tuttora utilissime. Tra le tante ce n’è una che mi fa riflettere da tempo: la distinzione tra medium caldi e freddi. Dice Oxford Reference: “Una distinzione fatta da McLuhan tra media come stampa, fotografie, radio e film (media caldi) e media come discorsi, cartoni animati, telefono e televisione (media freddi). I media caldi sono “ad alta definizione” perché sono ricchi di dati sensoriali. I media freddi sono “a bassa definizione” perché forniscono meno dati sensoriali e di conseguenza richiedono maggiore partecipazione o “completamento” da parte del pubblico”. Oggi è difficile definire la Tv HD un medium freddo ma questa distinzione mi pare ancora sensata.
Se la applichiamo alla musica è subito chiaro che c’è stato un passaggio fondamentale, anzi due: la Stereofonia e l’Alta Fedeltà. All’inizio della riproduzione sonora lo stupore e l’impatto sociale sono i fattori fondamentali del suo successo, non la qualità. La musica registrata era sicuramente un medium freddo, la differenza con l’esperienza della musica dal vivo era immensa e l’ascoltatore doveva integrare quello che sentiva uscire dal Grammofono. Poi negli anni ’50 la tecnologia fa un salto, registratori, microfoni e mixer migliorano e arriva la Stereofonia: non più il suono proveniente da una singola sorgente ma “l’illusione di trovarsi al centro dell’orchestra”. Mentre prima bisognava tendere l’orecchio e integrare, l’Hi-Fi ci permette di rilassarci inondandoci di dati sensoriali assai caldi: oggi il “suono” di un disco è una componente essenziale del nostro piacere.
C’è un altro aspetto che lega questa intuizione alla cultura Pop. L’esempio perfetto sono i Beatles a cui, essendo stati i primi, è toccato l’arduo compito di inventare molto altro oltre alle canzoni. Quando la band esplode il pubblico ne sa poco. Ci sono le foto: in posa, quasi sempre in uniforme, sorridenti, simpatici, scherzosi. Anche le interviste sono affari molto formali con domande stereotipate e risposte prevedibili. In questa carenza di informazioni si innestano le riviste teen ma soprattutto le fan che iniziano a costruire, immaginare, completare: Paul è il bello gentile, simpatico ma sessualmente attraente. Anche George è bello ma tenero e timido. E mentre John (diversamente bello) è il pazzo di genio, in Ringo alberga la follia del giullare. Era vero? Forse non del tutto, ma questa integrazione, questa attività creativa di completamento rendeva il gioco assai interattivo. Quando nel luglio del ’66, cioè nel pieno dell’onda giovanile alla quale all’inizio aveva dato voce, Bob Dylan scompare (il pretesto fu un incidente in moto) per ricomparire otto anni dopo (e nel frattempo pubblicare dischi assai diversi dai precedenti) i fan e i giornalisti si scatenano, qualcuno va perfino a rovistare nella sua spazzatura per cercare indizi, brandelli, frammenti di informazione. Due esempi di artisti popolarissimi in un’epoca di comunicazione ancora Low Fi, che richiedeva “maggiore partecipazione o “completamento” da parte del pubblico”. Poi pian piano le informazioni iniziano a arrivare, negli anni ’60 nasce la stampa musicale specializzata: non più giornaletti per teenager ma giornalismo vero che indaga, studia e racconta. Quindi già nei ’70 la situazione è molto mutata: posso ascoltare Dylan come se fossimo nella stessa stanza e leggerne lunghe interviste nelle quali articola, spiega e si spiega: la situazione si scalda e l’integrazione diminuisce. L’arrivo del videoclip ovviamente aumenta ancora la temperatura: posso vedere l’artista da vicino dentro un’articolazione visuale della sua poetica, in un contesto che amplifica il suo immaginario. Per molti artisti Pop dagli anni ’80 il video diventa una componente essenziale della creatività e della comunicazione.
Una relazione però ancora mediata e indiretta fino all’arrivo di Internet, dove entrano in gioco alcuni fattori: la moltiplicazione dei media, la rete dei fan (ne parlavo qualche tempo fa) ma soprattutto la comunicazione diretta e quotidiana tra artisti e pubblico attraverso i social media. Oggi un/una fan di Billie se crede sa tutto di lei, dalla marca di dentifricio alle preferenze di arredamento, quelle alimentari e sessuali. Certo, viviamo nel tempo dell’overload di informazioni e la cultura Pop non fa eccezione, anzi. Mentre però mi pare evidente che il progredire delle tecnologie abbia giovato alla musica, che se si sente meglio si apprezza di più, mi chiedo se l’assoluta completezza di informazioni non abbia sottratto qualcosa all’esperienza misteriosa, e talvolta intensamente creativa, di essere fan.