Dei quattro elementi nei quali si può scomporre la musica, certamente Ritmo e Timbro sono quelli che hanno maggiormente segnato il secolo appena finito (e anche lo scorcio di questo). Così, mentre Melodia e Armonia, centrali nelle culture musicali occidentali del passato (talmente tanto che la SIAE tutela ancora quasi solo questi due elementi), sono sostanzialmente inalterate dai tempi di Beethoven, il povero Ludwig farebbe fatica anche solo a comprendere l’universo ritmico e timbrico della musica contemporanea – di matrice Pop o Colta. Le ragioni di questa diversità sono molteplici: lo sviluppo di certe famiglie di strumenti tradizionali avvenuto grazie alle nuove tecnologie (dall’invenzione del Sax ai materiali innovativi per costruire le corde), l’elettrificazione degli strumenti tradizionali, l’elettronica, le tecnologie digitali. Ma anche motivi culturali: nel ‘900 le soluzioni possibili all’interno del sistema occidentale sembravano esaurite e, dalla dodecafonia all’elettronica, molti generi possono essere letti anche come ricerca per superare quel sistema.
Però mi pare evidente che la causa più importante del mutamento del Suono della Musica è stato l’arrivo di quei generi musicali afro-americani derivati dalla musica degli schiavi, e in particolare proprio del suono di quelle musiche. Che è poi lo stesso di molte musiche africane (non solo, però specialmente). Questo è uno dei pochi casi in cui questa generalizzazione funziona: le musiche europee, e specialmente quella Classica, hanno in comune la tensione verso un ideale di suono cristallino, puro, bianco (un aggettivo in passato sinonimo di voce perfetta). Per contro moltissime musiche africane anche distanti, e certamente tutta la musica Afro-americana, preferiscono timbri meno netti, più granulari e ricchi di sfumature cromatiche.
L’incontro, o meglio lo scontro cultural-musicale tra questi due mondi è stato traumatico: da un lato la cultura europea, che aveva prodotto strumenti come il violino o il pianoforte (ambedue poi appropriati con successo dagli afro-americani) e piegato la voce umana alla soprannaturalezza della lirica. Dall’altro quella di matrice africana, dove invece un suono netto e separato dagli altri è considerato spiacevole, l’interpretazione vocale deve sottolineare l’emozione del testo e dello stato d’animo narrato dalla canzone e il ritmo, invece di essere scandito in maniera esatta (come nella Polka), è spesso intricato e sottinteso, e sempre molto corporeo. Cioè la musica com’è oggi nel 90% dei casi.
In Italia gli amanti della lirica e i tradizionalisti del bel canto, che chiamavano con disprezzo Urlatori i cantanti con uno stile più intenso (bisogna ricordare che all’epoca il massimo dell’espressività consentita a un cantante era alzare un braccio, o toccarsi il cuore, mentre eseguivano l’acuto finale), hanno tentato invano di preservare la centralità di Melodia e Armonia. Ancora oggi si sente spesso rimpiangere le belle melodie di una volta, e esistono programmi Tv appositi che ciclicamente ce ne ricordano i fasti. Personalmente ricordo che all’epoca quella musica mi sembrava noiosa e prevedibile, se paragonata all’eccitazione furibonda e maniacale che mi provocava l’ascolto ripetuto di Land of a Thousand Dances nella versione di Little Richard (Okeh, 1967), un brano centrale nella mia formazione, che contiene in bella evidenza tutti quegli elementi di scostamento dal suono europeo di cui parlo più sopra. Lo so: sono stato un ragazzino fortunato.
*Alberto Sordi, “Il Carcerato (ritmo sincopato del maestro Gambara)”, Studio Uno, 1966