Sedici magici bottoni colorati

Se dovessi scegliere uno strumento musicale per rappresentare la rivoluzione musicale del Rock’n’roll (e di tutte le musiche derivate, dalla Techno al Punk) non avrei alcun dubbio: la Batteria Elettronica. Contrariamente a quanto si pensa, la Drum Machine non nasce insieme agli altri strumenti MIDI all’inizio degli anni ’80. Già negli anni ’60 erano disponibili sul mercato delle Rhythm Machine in grado di suonare ritmi pre-impostati (Dixieland, Western, Swing, Rumba, Foxtrot, ecc.). L’uso più comune di queste macchine era quello di accompagnare l’organo, e la Hammond la incluse in diversi modelli. Tra i primi modelli è popolarissima la Rhythm Ace (’67). Dei vari album dove si impiegano queste macchine tra il ’69 (anno di uscita di Saved by the Bell di Robin Gibb, primo brano con ritmo automatizzato a entrare in classifica) e la metà dei ’70, quando se ne appropria la Disco, mi piace sempre ricordare Naturally, primo album di J. J. Cale, 1972. Non solo perché è uno dei miei dischi preferiti, ma perché è un album country/blues con molto swing dove non ci si aspetterebbe una batteria elettronica, che però invece funziona a meraviglia, per esempio in Call Me The Breeze e Crazy Mama, due grandi classici del repertorio di Cale. Il trucco è semplicissimo: mentre la macchina scandisce i quarti, i musicisti gli swingano intorno.

La svolta arriva nei primi anni ’80 con la popolarizzazione di due tecnologie, il campionamento digitale e la sintesi analogica, e l’uscita dei due modelli fondamentali di queste famiglie: la costosissima Linn LM1, il cui suono definirà gli anni ’80, e l’alternativa economica Roland TR-808, il cui suono è tuttora onnipresente, dalla Dance al Pop. Macchine diverse, ma accomunate da una novità importante e per certi versi rivoluzionaria, sedici grossi bottoni con una duplice funzione: ognuno riproduceva uno strumento diverso, ma era anche un sedicesimo di una misura musicale (insomma un sequencer). Quindi selezionando uno strumento e poi accendendo i tasti corrispondenti ai sedicesimi desiderati si potevano comporre dei ritmi. L’effetto di democratizzazione fu immediato e dirompente. Naturalmente è una liberazione assai limitata: i sedicesimi possono molto ma non tutto, il 4/4 è soltanto una delle molte misure ritmiche, e nessuna batteria elettronica è in grado di riprodurre il feel di un bravo batterista umano.

Succede però che a volte, in certi generi (come la Techno o il Folk Bavarese), queste nuance non servano, e il ruolo della ritmica sia di ripetere all’infinito la stessa cosa. In questo caso l’automazione mi pare auspicabile, fosse anche solo per redimere i poveri grancassisti bavaresi dall’ingrato compito di fare bum bum sempre uguale per ore. Questo termine industriale torna utile anche per un’altra più importante questione. In molte fabbriche è automatizzato il processo di costruzione, ma certo non quello di progettazione. Il progettista di un’auto probabilmente non sa fare le saldature, benché ne conosca intimamente la meccanica: gliele fa un robot, così lui può concentrarsi sul design. Una delle grandi rivoluzioni dell’automazione in musica è esattamente questa: consentire a un designer musicale di costruire da solo un universo sonoro che rifletta esattamente la sua idea – senza interventi terzi (se siete scettici andate a rileggervi cosa diceva Frank Zappa del Synclavier).

Questo cambio di prospettiva lo si deve anche e soprattutto alla Batteria Elettronica, primo strumento musicale a separare completamente la tecnica dalla progettazione e aprire la strada a un mondo dove si compone ascoltando, invece di immaginare e poi annotare. Quei sedici bottoni espandono l’immediatezza della chitarra rock’n’roll ai ritmi, rendendo possibili incastri e generi fino a quel momento impossibili: un batterista dopotutto ha solo quattro arti. Ferma restando una regola logica: non si può imitare un batterista con una Drum Machine. E’ difficile, si sente, è brutto. Però è quasi sempre vero anche il contrario.

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