Una delle abitudini ricorrenti nelle chiacchiere dell’ambiente musicale italiano è quella di parlare male della Siae. Gli argomenti sono i soliti: si piglia la stecca e basta, ti mette nell’impossibilità di organizzare un concerto, è una palude statale, un magna-magna, etc. E la Siae, bisogna dirlo, si è spesso meritata questi epiteti. Qualche esempio: A chi vanno i diritti d’autore di Mozart (e di chiunque non può più incassare)? Vanno nel “calderone” (lo chiamano proprio così, questi sfacciati). Il calderone se lo spartiscono a fine anno i Soci. Chi sono i Soci? Sono quelli, tra gli autori ed editori, che hanno incassato di più. Insomma, il malloppone se lo fumano i ricchi, che nella Siae hanno anche molti altri previlegi medievali, alla facciazza dei meno abbienti. Oppure: organizzi un concerto degli Unbelievable Cazzons (che non sono iscritti alla Siae) dove vengono 27 persone e ci rimetti pure; ecco arrivare la Siae, cieca come un bulldozer, che ti chiede soldi, ti multa, ti rompe il cazzo (e dove vanno poi quei soldi? Nel calderone!). Insomma, se non ci fosse, ‘sta Siae, staremmo tutti meglio, no?
No, secondo me no. Ecco perché:
La Società Italiana Autori ed Editori si occupa di due cose ben precise: la tutela del diritto dell’autore sulle “opere dell’ingegno” (attraverso il deposito e l’archiviazione di queste opere; un compito istituzionale, svolto in molti paesi direttamente dallo stato) e l’incasso dei denari derivanti dal loro uso (che implica un rapporto economico di tramite tra l’autore e chi ne utilizza il lavoro: case discografiche, radio, televisioni, sale da concerto, segreterie telefoniche, diffusione nei bar, etc.). Non c’è niente di male in questo, anzi. Se Vasco Rossi nel suo concerto esegue “The Ospite” delle Voci Atroci, mi pare sacrosanto che cinque lire della Siae di ogni biglietto vadano ad Andrea Ceccon, autore del brano.
Mi pare però che la Siae abbia urgente bisogno di una nuova mentalità, oltre che di risolvere alcune spettacolari contraddizioni. Innanzitutto deve distinguere meglio tra uso commerciale e non commerciale: se Rete 105 mette in onda un pezzo dei Massimo Volume tra 6000 spot, deve pagare tutti i diritti (e proprio per quel brano, non un bel forfait che poi finisce nel calderone), mentre se lo trasmette Radio Kappa Centrale senza pubblicità, sta svolgendo (comunque la pensiate su RKC e sui Massimo Volume) una funzione culturale che va incoraggiata ed agevolata. Questa differenza è cruciale e deve essere compresa, come d’altronde la questione dell’Iva sui cd: io non ho NIENTE in comune con Nek – per nostra mutua fortuna: perché l’Iva sui nostri cd deve essere uguale? Poi: autori ed editori. L’editore era quello che stampava le partiture di una canzone. Quando non c’erano i cd ma le orchestrine, questi foglietti andavano a ruba. Oggi gli editori sono quasi sempre le stesse case discografiche (quindi membri potentissimi della Siae e anche sue controparti economiche, un palese conflitto di ruoli) che incassano il 50% dei proventi di una canzone praticamente senza muovere un dito, e ne restano proprietari fino a 70 anni dopo la morte dell’autore: sarebbe ora che tutto il regolamento e la logica di ripartizione dei diritti fossero un po’ più giusti e ragionevoli.
Sono iscritto alla Siae da più di 10 anni, e non mi stanco di notarne le stranezze e l’anacronismo, ma anche la bizzarra efficienza (per esempio nell’incassare i diritti esteri, altrimenti irraggiungibili) la precisione (beh, quasi sempre) e le immense potenzialità. So che sta facendo alcuni passi per rinnovarsi, come – pare – abolire il ridicolo esame di ammissione; penso che queste timidi tentativi da soli non basteranno, e che la riforma dovrà essere più radicale (magari con l’introduzione della concorrenza, com’è altrove). Ma non mi piace l’idea di abolire la Siae; perché purtroppo poi succede che chi è più ricco e amorale fa come vuole (vedi la lunghissima causa Siae contro Fininvest), mentre gli altri poveracci se la pigliano nel culo.