Come forse avete capito se leggete questa pagina, sono un ascoltatore piuttosto schizofrenico. Mi piace sapere cosa succederà domani, ma sono anche affascinato dal passato, dalle registrazioni d’epoca, e dai mille modi di fare musica che hanno preceduto il nostro, e in particolare il mio. Tra i miei ascolti preferiti ci sono quelli di un singolo esecutore. Sarà che ho prodotto moltissima musica col computer – strumento naturalmente a più voci – ma l’idea che una singola persona possa produrre in tempo reale un evento completo e compiuto mi pare sempre lievemente miracolosa. A questo si aggiunge un’ulteriore perversione: tranne in rarissimi casi detesto il virtuosismo onnipotente e soffro l’abbondanza di note, preferendo musica inevitabile e essenziale. Quindi, per non fare nomi, non mi piace Steve Vai (benché ne riconosca il valore) mentre amo John Lee Hooker.
Tra le registrazioni che hanno marcato la mia esistenza c’è una breve canzone sentita per la prima volta a 14 anni. Si intitola I wish I was a single girl again e è nella la colonna sonora di Zabriskie Point. Un discone del 1970, con dentro la crema delle avanguardie pop dell’epoca: Pink Floyd (che scrissero un brano apposta, rifiutato da Antonioni: era Us and Them, poi finito su The Dark Side of The Moon. Il regista ne scelse un altro per l’epica scena finale), Grateful Dead, Kaleidoscope, Youngbloods e due brani tradizionali americani: Tennessee Waltz di Patti Page e appunto I wish I was a single girl again, anche detta Single Girl.
Ho comprato l’album nel ’73, attratto dai bei nomi. Ma quarant’anni dopo quello che mi pare veramente sublime sono proprio quei due brani inaspettati, e in particolare Single Girl – che è cantata da un uomo. Io però questo l’ho scoperto solo l’anno scorso, facendo una ricerca in rete. In realtà non mi ero mai posto il problema: Single Girl ha immediatamente avuto su di me un potere quasi magico. Un singolo accordo, un banjo apparentemente bluegrass ma lento, dolente e blues, e il suono ipnotico e irreale della voce di Roscoe Holcomb, minatore di Daisy, Kentucky (un’occhiata su Google maps racconta molto). La storia di quest’uomo, nato nel ’12 e registrato per la prima volta nel ’58, è di quelle da epopea. Holcomb interpreta generi anteriori sia al Bluegrass che al Country: la Old-Time Music e la musica dei monti Appalachi, una zona rurale dove poveracci bianchi e neri vivevano a strettissimo contatto, come è evidente all’ascolto. Ma quello che sconvolge è la sua voce, di cui Bob Dylan (che ha attinto molto dalle sue melodie) ha detto: “Possiede un indomito senso del controllo”. Il musicologo John Cohen, autore di un documentario su Holcomb, l’ha definita The High Lonesome Sound (anche il titolo del film): due definizioni che descrivono bene l’emozione dell’ascolto.
E’ facilissimo trovare la sua musica, recentemente ristampata dalla Folkways in belle edizioni (sul sito trovate perfino le note di copertina in pdf). Se l’argomento vi affascina c’è anche un saggio fantastico e a tratti buffissimo su Holcomb e il suo “scopritore” John Cohen. Ma se siete incuriositi, la prima cosa da fare è andare su Youtube e scrivere il suo nome: sentirlo (e vederlo) emettere quel suo suono primordiale, dritto e inevitabile mentre canta, per esempio, Man of Constant Sorrow a cappella, è un’ esperienza poderosa. Ma attenzione: a volte è irreversibile.