Quando nel 3.000 si studieranno i nostri trend culturali salterà all’occhio la nostra passione (e forse ossessione) per la realtà. Se guardiamo la storia recente dei media, ma anche di cinema, musica, arte e perfino del porno, questo aspetto appare predominante: sempre più spesso nelle nostre scelte culturali e di intrattenimento preferiamo la realtà alla fantasia. Gli indizi sono infiniti e onnipresenti. Ormai da diversi anni nelle classifiche di vendita dei libri la saggistica compare in modo consistente, dalle biografie ai testi di filosofi e storici. Dal 1992, anno di lancio su MTV del primo reality show (The Real World) il panorama mediatico si è riempito di “realtà”; ci vanno le virgolette perché naturalmente spesso si tratta di una realtà parzialmente di finzione, con autori, montaggio, casting. Il fascino per il “vero” nei media, che ha una storia lunga, oggi è declinato all’inverosimile: La Vita in Diretta, Verissimo, Storie Maledette o il sublime Un Giorno in Pretura sono sono alcuni esempi di questo interesse spesso morboso. Come sa benissimo Netflix, che sui documentari ha costruito parte della sua fortuna talvolta serializzandoli a morte: alla prima serie di Tiger King (documentario bizzarro su una vicenda assurda con personaggi impensabili), 7 puntate, se n’è aggiunta una seconda di 5 e una terza di 3, più uno special. Oggi il documentario è anche uno strumento di convincimento efficace, proprio perché ci racconta di rappresentare il “vero” utilizzando un linguaggio e un formato che per molti sono sinonimo di verità. Gli esempi solo ovunque, dalla propaganda talebana agli innocui programmi di Discovery sui “Misteri degli UFO” fino a quei video su YouTube dove si “dimostra” qualsiasi cosa, dalla terra piatta al culo di Niki Minaj.
Ovviamente i documentari esistono da sempre ma si trattava di oggetti esotici, spesso letteralmente, come i bei film degli anni ’60 di Folco Quilici. E se fino a qualche anno fa gli Oscar per questa categoria erano sostanzialmente ignorati, scorrendo la lista di quelli recenti mi accorgo di averne visti e apprezzati molti: Inside Job (2010), Searching for Sugar Man (2012), 20 Feet from Stardom (2013), Citizenfour (2014), O.J.: Made in America (2016), My Octopus Teacher (2020) fino al trionfale Summer Of Soul che l’ha preso quest’anno. Sì, perché la musica ha un rapporto antico col documentario in tutte le sue forme. Quello “verità”, declinato in versione pubblicitaria (In Bed with Madonna, 1994), artistica (Don’t Look Back di D.A. Pennebaker, 1967, su Bob Dylan), lurida (Cocksucker Blues di Robert Frank, 1972, proibito dagli Stones a causa di certe scenette tossiche), disperata (Metallica: Some Kind of Monster, 2004) o feticistico-religiosa (The Beatles: Get Back, 2021). Poi il film-concerto, che spesso ha anche un valore documentario: oltre a Summer of Soul di recente è uscito Amazing Grace, che documenta uno dei concerti più esplosivi di Aretha Franklin del 1970, il cui girato si credeva perduto. Riguardando oggi T.A.M.I. Show (1964), Monterey Pop (1968), Woodstock (1969) o The Decline of Western Civilization (1981), le parti documentarie mi sembrano interessanti quanto la musica.
E infine il Mockumentary, genere che ha prodotto meraviglie anche musicali. This is Spinal Tap (1984) rimane un archetipo assoluto. Ma anche Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, 2019, dove la realtà (il tour del 1975 di Dylan insieme a molti altri artisti) si mescola alla finzione, e Dylan mente raccontandoci la verità. O uno dei miei film d’arte preferiti, non esattamente musicale ma Pop: lo strepitoso Exit Through the Gift Shop di Banksy (2010) dove tutto è insieme vero e inventato, reale e farlocco. Insomma ci piace sentirci raccontare la realtà passata e presente, esotica e nostrana, sudicia e edificante, virtuosa e morbosa – ma soprattutto “vera”, qualsiasi cosa voglia dire. Chissà cosa penseranno di noi nel 3000?