Uno degli effetti potenzialmente buoni del federalismo è introdurre l’idea che ci sia una certa discrezionalità nelle scelte di comuni, regioni e aree geografiche. Non solo discrezionalità di spesa, ma anche di orientamento sociale e culturale. Quindi magari una regione decide di investire maggiormente in cultura, mentre magari in un’altra si decide che spendere per promuovere la grappa locale è meglio – per ragioni economiche o perché, secondo gli abitanti e gli amministratori, pure la grappa è cultura (una stupidaggine questa della cultura di tutto, ripetuta talmente tante volte da giornali, tv, ecc. che ormai pare proprio vera, ma invece no, cazzo: la musica è cultura, la filosofia è cultura, la grappa è una bevanda leggermente tossica, a volte buona). Naturalmente, entro certi limiti, il federalismo fiscale porterà delle differenze regionali, un po’ com’è in America dove la tassazione cambia da stato a stato. Anche in Europa è un po’ così: non solo ci sono piccole differenze di tasse, ma a volte immense differenze di investimento, come nel caso dei fondi per la cultura di stati come l’Olanda o l’Austria, che noi ci sogniamo.
Fino a qui la mia visione e quella di Calderoli sono simili. Però poi lui aggiunge una cosa che mi inquieta: “Col federalismo fiscale i cittadini potranno essere anche clienti, punendo alle elezioni quegli amministratori che non avranno speso bene.” Certamente questa è una possibilità, anche se lo scenario che prospetta è sconfortante: se la cultura della grappa ti fa cacare ma vivi in un’area a vocazione grappista sei fottuto, e i tuoi soldi saranno sempre spesi per incrementare l’alcolismo (seppure consapevole e sofisticato) e non la letteratura. Insomma non cambia una minchia: li spenderanno pure più da vicino, con maggiore controllo, ma sempre in cose poco interessanti (o in niente, come si fa Milano). Invece gli scenari potrebbero essere assai diversi.
Mettiamo che il Molise decidesse di investire nella musica: agevolazioni economiche agli studi di registrazione, alle sale prove e ai club; defiscalizzazione dei dischi prodotti nella regione e accordi di distribuzione digitale agevolata per i primi album. Iva al 4% sugli strumenti musicali. Depenalizzazione delle droghe leggere. E via dicendo. Così farebbe una bella differenza, no? E verrebbe voglia di andarci a vivere. Ecco, secondo me è questo il metodo migliore di interpretare il federalismo: un momento di ridistribuzione del capitale umano e sociale sulla base di nuove etnie socio-culturali; un esodo (magari anche biblico, se serve) in cui tutti quelli della grappa vanno in un posto, e quelli della letteratura (o del cinema o della musica) invece vanno in un altro. Dove io e Calderoli possiamo essere separati non solo da chilometri, linguaggio e mentalità, ma dove lui può investire nella sagra del distillato alla prugna con orgoglio, senza doversi sentir dare del barbaro da me, che però al momento gliela finanzio e quindi m’incazzo, e viceversa.
Come dite? Bisogna lottare per cambiare le cose dove siamo, invece di andarsene? Ma siamo impazziti? E chi so’ io, Godzilla che mi metto contro una mandria di padani ingrappettati? Non ho alcuna chance. Molto meglio andare dove mi vogliono bene. E non è solo la musica o la cultura. Malgrado siamo nel 2011, ogni maledetta settimana si sente di aggressioni ai gay e dichiarazioni irresponsabili di gentaccia omofoba. Io non credo che questa gente possa essere migliorata, che Giovanardi possa essere redento. Penso che questi si meritino di rimanere da soli con la loro grappa, le sagre paesane, la cultura della carruba e l’omofobia, e noi altri (cioè chiunque si senta altro rispetto a Giovanardi) ce ne andiamo tutti. In fondo è già così: Berlino, Londra e Parigi sono piene di italiani con altre aspirazioni. Ecco, il mio sogno è che possano rimanere qui, ma non insieme alla Santanchè – separati. Una sorta di federalismo culturale, di secessione della modernità. Loro non ci vogliono, noi non li vogliamo: che aspettiamo?