Lavoro, guadagno, pago e pretendo: questa è la tipica frase attribuita, con una certa accuratezza, al brianzolo benestante (e infatti andrebbe pronunciata con il tipico accento del commerciante lombardo). Non è una frase attraente, almeno per me: spinge a pensare che possa pretendere solo chi paga, e se fosse sempre e solo così il mondo sarebbe un posto davvero di merda (e non un posto di merda e basta). Dato che però il mondo è anche un posto curioso dove succedono cose bizzarre, proverò stavolta a dire (a voi ma prima ancora a me stesso) come pagare e pretendere possa essere a volte una cosa sensata, e non solo brianzolamente parlando.
Ormai siamo abituati ad avere certe cose senza pagare; e non mi riferisco alla manutenzione delle strade o all’assistenza sanitaria (due cose tutt’altro che gratuite), ma a tutta una serie di oggetti e servizi che apparentemente lo sono: la televisione commerciale, le radio private, i blocchi per gli appunti del telefono (ne ho uno di un pastificio che sembra non voler finire mai) e più di recente i browser, i programmi di posta e gli euroconvertitori. Tutta roba “gratuita”: impegnandosi (e avendo un gusto discutibile) uno potrebbe non comperarsi una t-shirt per tutta la vita.
Per le penne e le magliette la ragione è semplice: hanno stampato sopra in bella vista il nome dello sponsor, che le regala proprio per far circolare il marchio. Tu non paghi con denaro ma guardandolo, indossandolo e mostrandolo agli altri. Una strategia che parrebbe pagare, visto il moltiplicarsi di gadgettistica pubblicitaria disponibile (basta visitare una qualsiasi fiera per accertarsene). Una strategia che ha assunto contorni paradossali: c’è gente che sborsa tranquillamente 80 euri per una t-shirt (certamente ben fatta) con immensa scritta frontale “Puma”, ottenendo così l’effetto della penna omaggio (per la Puma), ma a pagamento.
Nell’era della tecnologia però questo meccanismo sta assumendo caratteristiche (e proporzioni) preoccupanti. Un buon esempio sono le carte fedeltà dei supermercati: ti danno accesso a sconti anche notevoli, in cambio di informazioni dettagliatissime sui tuoi consumi. Quindi queste informazioni hanno un grande valore, chiaramente molto superiore a quello degli sconti (ne ho già parlato qui). Idem coi browser per internet: i due maggiori, Netscape e Explorer, sono gratis. Perché? Che sono, Babbo Natale? No: loro in cambio si prendono tutte le informazioni che vogliono sui tuoi consumi, interessi e perversioni nascoste. Si riservano il diritto di fare quello che gli pare (spesso anche in barba alle leggi) coi tuoi dati (che io quindi immetto regolarmente falsi), col tuo indirizzo e le tue statistiche d’uso (accoppiate a dati personali più o meno dettagliati). Una soluzione sarebbe di battersi affinché queste spregevoli pratiche fossero stroncate, ma è una battaglia persa in partenza: questi sono dei gran paraculi, e la tecnologia è dalla loro. L’altra soluzione, non bella ma efficace, è di pagare – e pretendere.
Al supermercato rifiutare la tessera, pagando di più ma negandogli i propri dati; comperarsi le magliette a tinta unita (se poi la vuoi proprio con la scritta Puma consulta un medico). E anche in rete è la stessa cosa: usare software a pagamento (magari shareware) che garantisca un maggiore rispetto dei propri clienti (proprio in quanto clienti, e non vacche da latte).
Perché è sempre la solita vecchia storia: chi ha i soldi può permettersi il lusso di non vendersi niente. Non il culo, non la giornata lavorativa ne’ i dati personali, la privacy o lo spazio di stoffa sul proprio petto. I poveracci invece si arrangiano. La differenza è che questo una volta accadeva consapevolmente, mentre ora ci si sente liberi e belli (nella nostra t-shirt Puma) mentre degli estranei privi di scrupoli scoprono (e annotano) cose su di noi che non racconteremmo nemmeno a nostra mamma.
* Non esistono pranzi gratis. Robert Heinlein