Tutti musicisti?

Negli ultimi vent’anni, o forse addirittura trenta, è periodicamente riemersa una polemica musicale, recentemente riaccesa dall’arrivo di tablet e smartphone. E’ musica quella cosa che chiunque può produrre pigiando dei bottoni lampeggianti sul tablet? E se sì, di chi è? Di chi pigia, o di chi ha programmato quel software? Belle domande, che tornano a ogni nuova tecnologia: la batteria elettronica, il MIDI, le workstation, Fruity Loops, Garage Band e adesso app come Nodebeat o Loopseque. Le pongono perlopiù i musicisti già navigati, gente che magari ha studiato musica classica, e spesso lo fanno con veemenza: vedono gente qualsiasi che ruota palle colorate su uno schermo, spesso senza sapere esattamente cosa stia facendo, e produce “musica” – che magari per qualcuno suona meglio della loro. Mi pare una storia ricca di equivoci, e con una interessante morale.

La prima domanda da affrontare mi pare la seconda: che sia musica o meno, di chi è? Questo dipende sempre, ma nella stragrande maggioranza dei casi è il software a determinare cosa succede – specialmente nei programmi musicali semplificati, come Garage Band, dove magicamente tutto funziona. Chiunque abbia provato a fare musica da zero, a partire da singoli suoni o strumenti musicali, sa benissimo che non funziona quasi mai – specie all’inizio. Quello che pare facile diventa difficilissimo, azzecchi le note ma magari sbagli il tempo, ecc. Con certe app invece, perfino un sordo potrebbe produrre cose interessanti, tracciando delle linee ondulate su un tablet. Che poi questo gesto produca l’apertura di un filtro (un effetto comune nella techno) su un giro di batteria pre-inscatolato dalla fabbrica (e probabilmente programmato da qualcuno che sapeva cosa stava facendo), all’utente finale non interessa: pigia, il telefono produce musica e lui si diverte. In questo senso un programma come Nodebeat, che io trovo delizioso (si muovono dei punti, cioè dei nodi, sullo schermo, attivando una sequenza di suoni sintetici che viene influenzata dalla posizione dei vari nodi), è un gioco. Un bel gioco, secondo me, pensato assai bene da musicisti per far giocare gli utenti. Se ci pensate bene, Seth Sandler e Justin Windle, gli inventori di Nodebeat, stanno facendo una cosa che sta a cavallo tra la composizione e la programmazione, tra il gaming e la musica. Il prodotto finale sarà tanto loro quanto di chi muove i nodi, avendo l’impressione di “fare della musica”.

Nodebeat
Nodebeat

Questo ci traghetta alla prima domanda: è musica? Beh, questo dipende sempre. All’inizio il Rock’n’roll veniva definito rumore primitivo dai cultori della classica: “Basta sapere quattro accordi per essere considerati musicisti?” La risposta la sapete da soli: le canzoni che ho amato di più sono proprio di quattro accordi, o tre, o uno (come Mannish Boy di Muddy Waters). Naturalmente qui il discorso è diverso, ma non tanto – una volta chiariti i termini della questione: Nodebeat è un gioco che produce musica, ideata da Sandler e Windle e mescolata, agìta, maneggiata da terzi. Di per se l’app è silente, quindi quella musica richiede la presenza di un utente per esistere. A differenza di un sax però, qua si ride subito. La ragione è che quella musica l’hanno fatta degli altri.

Lo spunto per il finale me lo suggerisce Garage Band, popolare software Apple pensato per far fare musica a chiunque: tutto funziona, va a tempo, ecc. In teoria si produce musica “virtualmente indistinguibile” da quella che si sente per radio, o quasi. Questo è spesso vero per il suono e per il ritmo, ma mai, ripeto mai, per la struttura – cioè cosa succede dopo 30 secondi, al minuto 2 o subito prima del finale. Questo è sempre il principale problema dei musicisti inesperti, e nel 201X mi pare la vera risposta a quella domanda. Sì, suona assai bene, quindi parrebbe musica. Ma cosa succede nel tempo? Qual è la sceneggiatura, la struttura narrativa del tuo pezzo? Perché a fare unz unz ci pensa il programma – ma al dipanarsi della vicenda puoi pensarci solo tu.

2 thoughts on “Tutti musicisti?

  1. Il dibattito è aperto. Io l’ho tolto, benchè mi sembri proprio un’elisione. Siccome però i gentili puntigliosi sanno anche essere puntilisti, aggiungerei che: “È vero che la grafia qual’è è diffusa e ricorrente anche nella stampa, ma per ora questo non è bastato a far cambiare la regola grafica che pertanto è consigliabile continuare a rispettare. Raffaella Setti, Accademia della Crusca”. Consigliabile – e consigliato.

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