Tutti noi sappiamo benissimo che l’abbigliamento non serve solo a coprirci dal freddo ma che risponde a precise esigenze culturali e simboliche, ad esempio nascondere delle parti ritenute intime (si va dal corpo intero del Burka all’invisibile interstizio tra le chiappe del Tanga) o mostrare il proprio rango o ricchezza. Da qualche decennio a queste cose si è aggiunto un altro elemento importante: lo stile. Infatti sappiamo anche che molti di noi si rifiuterebbero di uscire vestiti in un modo che non trovano appropriato mentre altri si vantano di indossare quello che capita (una scelta altrettanto indicativa). Insomma ci è chiaro che lo stile si riflette anche nel vestire, che spesso siamo come ci vestiamo e che quindi l’abito non farà il monaco ma fa quasi tutte le altre categorie di pensiero e stilistiche: ve l’immaginate Ghandi in completo di tweed e pipa? E il Papa in tutina Darkness?
Sarà che io ci ho sempre tenuto molto a sentirmi a mio agio nei vestiti; ne compro pochi ma devo sentirmeli addosso, e non solo per la comodità ma per la loro forma, il loro valore simbolico, culturale e comunicativo. Ovviamente la cravatta la uso poco: negli ultimi dieci anni l’avrò messa quattro volte. Una delle ragioni è che di solito si considera elegante uno col vestito, perfino se è della Standa, e invece “sportivo” (o casual, informale: tutte parole orribili) uno con una felpa (magari vecchia, rara e bella). Siccome di giacche e cravatte brutte e scrause sono pieni gli uffici, mi piace distinguermi vestendomi in una maniera che mi pare più elegante e comunque simbolica di come sono. Ma non sono il solo: la stragrande maggioranza di voi lettori si regola come me. Ecco anche come ci riconosciamo tra di noi, no?
Parrebbe di no. Nel mondo delle idee, della politica e della vita pubblica in genere questo concetto non è mai arrivato. Guardate le immagini delle trattative tra Confindustria e Sindacato: i personaggi sono identici, e per distinguerli ci vogliono le didascalie. Un altro esempio eclatante è quello dei signori ritratti in questa pagina. Uno è Ignazio La Russa, coordinatore di Alleanza Nazionale, sanguigno post fascistone che ama l’ordine, la patria e la famiglia. L’altro è Nichi Vendola, deputato gay di Rifondazione Comunista che si batte per tutto quello che a La Russa gli fa schifo: unioni civili, antiproibizionismo, sesso nelle scuole, ecc. Si vede? Macché, a guardarli sono indistinguibili. Anzi, La Russa almeno si satanizza la faccia (riuscendoci benissimo: tra i deputati per me è il più avanti), mentre Vendola (anche col cerchietto d’oro) pare un delegato della Confindustria che s’è perso. Si vestono tutti allo stesso modo, senza eccezioni. Non è uno stile bensì un’uniforme che a nessuno è mai venuto in mente di togliersi: destra, sinistra, centro, radicali (il cui segretario pare uno dell’Azione Cattolica), nani e ballerine tutti con la loro bella (o più spesso micidiale) cravatta d’ordinanza. Perfino i Leghisti che hanno tentato alcune variazioni polemiche sono rientrati nei ranghi, salvo per cravatte e pochette, sempre verdi ma rigorosamente scompagnate. Poi in vacanza si mettono la bandanna: da un estremo all’altro, da un orrore all’altro.
E non è vero che nell’uomo le variazioni possibili sono minime: basta andare a un concerto, o perfino sull’autobus, per accorgersi che c’è vita oltre il gessato, che un bel chiodo fa la sua porca figura tanto quanto l’armatura doppiopetta del Berlusca e che le t-shirt non sono poi così male. Sarò estremista ma trovo ancora stupefacente che Folena e Gasparri vadano vestiti uguali (e non sono certo le camicie coi bottoncini a fare la differenza), che D’Alema e Fini portino le stesse scarpe e che per tutti questi, che poi sono quasi tutti, lo stile quindi non significhi (e non comunichi) proprio niente di niente. Il mio rozzo buonsenso punkabbestia mi suggerisce di diffidare di chi non somiglia a quello che dice (come il presidente operaio) e non votare mai per qualcuno che non sia mio simile, almeno un po’.