Non ho assolutamente niente contro l’idea che 22 adulti inseguano virtuosisticamente un pallone; ci ho messo un po’ a capirlo (provengo infatti da una cultura che trova il tutto assolutamente fesso) ma ne è valsa la pena. Non mi dispiace nemmeno il fatto che una congrua percentuale di miei compaesani ne segua attentamente i gesti, le movenze, le gesta e le malefatte e che ne faccia poi argomento di conversazione per i successivi sei giorni. Ammetto perfino che ci siano alcune migliaia di persone che si guadagnano da vivere riempiendo i media con le loro chiacchiere calcistiche: li guardano in milioni, cosa posso dire? Osservo divertito il calcio mercato, il totocalcio, insomma la girandola di miliardi che ruota intorno al pallone: cazzi loro, penso. Se li guadagnano, se li spendano come credono. Quando però sento che bisogna bandire la violenza dagli stadi, allora mi preoccupo, e molto: bandirla dagli stadi? Per mandarla dove? Sotto casa di chi lo propone? Nella scuola dei vostri figli? Eh si, perché se la bandite dagli stadi quella se ne andrà altrove.
Calcio e violenza mi sembrano strettamente legati. Basta guardare una qualsiasi partita di serie A per rendersene conto: io e voi non reggeremmo 10 minuti. Gomitate, calci, sgambetti, sputi, pugni: siamo lontani anni luce dal gesto atletico del maratoneta, del saltatore o perfino del discesista. Chi gioca pesante (magari senza farsi beccare) non si definisce “merda antisportiva” bensì “maschio” (un aggettivo tanto inaccettabile quanto “femminile” riferito ai lavori domestici). Ho visto partite di calcio in cui sono volati certi pugni che manco fossimo al Madison Square Garden; non mi capita guardando il golf (dove pure si vincono paccate di milioni) e nemmeno col tennis (dove oltre ai milioni c’è anche la sfida diretta uno contro uno). Non ce n’è: comunque la si guardi, la violenza e il calcio vanno proprio insieme; e allora:
lasciamo la violenza negli stadi, che è proprio il posto suo, e decidiamo che ci vada solo chi sa cosa trova; ci si organizza con del disinfettante, delle imbottiture sugli spigoli e via. Se vogliono pestarsi tra tifoserie (cosa legittima e auspicabile, tra adulti consensuali) perché mai dovrebbero farlo per strada, dove magari fanno male a qualcuno? Gli stadi vanno benissimo. La partita la giochiamo altrove, magari in uno studio televisivo, e gliela proiettiamo in megaschermo. Organizziamo delle proiezioni pubbliche dove vederla in santa pace e lasciamo fare alle tifoserie organizzate quello che fanno con tanto entusiasmo e dedizione: darsele a vicenda. E se proprio volete portare i bambini da qualche parte, come ho sentito dire in tv ad un giornalista indignato, non portateli allo stadio, dove l’espressione più gentile che vi può capitare di sentire, in bocca a persone abitualmente tranquille, è “Porca quella troia bagascia di tua madre”. Il calcio infatti porta in superficie il peggio che c’è in noi. Questo è bellissimo e rispettabilissimo; basta saperlo e imparare a goderselo coscientemente, senza l’ipocrisia su sport e violenza: lo sport nasce come violenza “codificata” (tra gli atleti, ma anche tra gli spettatori – che fanno scene che si vergognerebbero di fare per altri motivi) e tale rimane, malgrado tutto.
E c’è una meravigliosa morale “edificante” in questo: allo stadio diventiamo tutti uguali. Commercialisti, coatti, punkabbestia, neonazi, tossicomani, cavalieri e pedoni, per quei magici 90 minuti tornano a sembrare quello che realmente siamo, che siamo sempre stati e che resteremo sempre: bestie senza redenzione. Perché sotto il gessato di Caraceni come sotto la sciarpa “regime rossonero” (che possiedo, avuta in regalo da un tifoso foggiano) si agita un selvaggio incontenibile, figlio dei tornei medievali e delle invasioni Unne, sempre pronto a riprendere la sua danza di estasi e perdizione. Una gran figata, no?