Grazie di cuore: al direttore, al giornale e a tutti quelli che mi hanno scritto – per essermi vicini e/o parlarmi del loro rapporto con la morte.
Mia madre è morta il 13 marzo, dopo una rapidissima malattia. Purtroppo ho perso la persona più cara che avevo, ma ho anche imparato alcune cose che mi sembrano importanti e che vorrei provare a raccontare.
Qui in occidente la morte si vive come un fatto medico, una questione sanitaria che va gestita in ospedale e che noi gente qualsiasi possiamo solo osservare, muti ed impotenti, da dietro un vetro. E siccome una grande percentuale delle persone muore di malattie incurabili, le modalità sono spesso simili: il medico annuncia che non c’è più nulla da fare; i parenti si disperano, sentono che dovrebbero fare qualcosa per il loro caro ma non sanno cosa, si sentono inutili ed impotenti di fronte alla malattia e certamente meno adeguati delle strutture sanitarie, dove invece possono curarlo (perfino se è incurabile). L’ospedale dal canto suo ha delle regole: prolungare la vita con ogni mezzo necessario, a prescindere dai segnali che il paziente invia. Smette di mangiare? Alimentazione forzata. Ha la febbre? Antipiretici. Va in coma? Terapia anticoma. E così via. Il risultato (soprattutto nel caso di anziani) è un prolungamento indefinito della vita del paziente, che può andare avanti per mesi o anni in questo gioco micidiale: il corpo cerca di morire ma la medicina glielo impedisce.
Ma che vita è? Alle strutture sanitarie questo non interessa: la vita va preservata comunque. Anche se la qualità dell’esistenza scompare e il paziente soffre e basta, pure se il paziente stesso chiede di morire. Perfino se il paziente ha 82 anni ed è devastato da una malattia la cui prognosi è di giorni o tuttalpiù di settimane – com’era il caso di mia madre.
Ma grazie a lei (che è stata ancora una volta eccezionale), al medico che la curava (a cui dovrò dire grazie finché campo) e all’esempio di amici che hanno fatto questo percorso prima di me, le cose sono andate in maniera assai diversa e io ho imparato una lezione che non mi scorderò.
Quando il medico annuncia che non c’è più nulla da fare significa solo che lui ha esaurito il suo compito. Qui entrano in gioco al 100% le persone care, che dovrebbero eliminare tutti gli intermediari facendosi carico della parte finale del percorso: un compito difficile, ma giusto e sensato che non si deve delegare a nessuno. Tantopiù che chi muore “bene”, e cioè chi termina la vita accettando la sua inevitabile fine (una cosa certamente molto più facile ad 82 anni che a 22) si affida completamente a chi ama proprio come un neonato, un’esperienza umana struggente e profonda.
Chi sta morendo non è evidentemente più un malato; quindi l’ospedale è un luogo inadatto come un villaggio Valtur, una discoteca o un sottomarino. I nostri vecchi, che avevano una certa dimestichezza con la questione, morivano in casa circondati dalle loro cose e dall’affetto dei loro cari: è così che si fa. Quando ci pensavo in astratto, l’idea di gestire una cosa così immensa in prima persona mi terrorizzava e mi sentivo totalmente inadeguato. Mi sbagliavo: non solo il nostro corpo sa esattamente cosa fare, come farlo e anche bene, ma farsi interamente carico di una persona amata è un’esperienza che come poche altre dà un senso alla vita.
La vita, che termina sempre con la morte. Ecco un’altra cosa vera: la morte ci riguarda tutti perché tocca tutti, e toccherà a tutti. Assaggiare la morte significa conoscere un pezzo fondamentale della vita, e prepararsi a morire con grazia è certamente un compito utile e sano.
E’ difficile pensare di fare pace con la morte; forse è impossibile. Ma ora come ora mi pare completamente idiota comportarsi come se fosse una cosa che riguarda gli altri, come un giro di roulette malvagia e brutale, che forse mi becca ma che invece magari se c’ho culo me la scampo.