Di tutte le materie scolastiche, sicuramente una delle più utili nel ’14 è la geografia. Peccato che di solito si impari piuttosto male, non si colleghi con altre materie (come la storia, che spesso aiuta a capire la geografia) e abbia il maledetto vizio di cambiare con regolarità: essendo giurassico ho studiato la Jugoslavia, che oggi non c’è più; ma anche chi avesse studi più freschi s’è trovato a dover fare degli aggiustamenti: ci si divide, come il Sudan, si cambia nome come la Birmania (che si chiama Myanmar) o si cambiano quelli di molte grandi città, come ha fatto l’India tempo fa.
Ma ci sono altre eccellenti ragioni per avere voglia di imparare la geografia: quando ho studiato la Jugoslavia, gli jugoslavi potevo vederli soltanto in tv, o andandoci. Oggi invece la geografia esiste dentro le nostre città, che sono anche cromaticamente molto diverse da quelle della mia infanzia (una cosa che non smette mai di mettermi allegria), e piene di persone in arrivo da tutti i continenti. L’atteggiamento più comune, forse comprensibile ma davvero becero, è di definirli in blocco “stranieri”. E passi se lo fa la questura, ma sentir dire “nel mio quartiere sono venuti a vivere degli stranieri” nel 2014 mi pare assurdo. Non solo, ma sempre più spesso ci troviamo a contatto con persone non italiane: aumenta ogni anno il numero di stranieri laureati che trovano lavoro in Italia, per esempio come medici. In certe zone del nostro paese, alcuni settori sono monopolio di certe comunità: i bar, le tabaccherie, a volte anche la ristorazione. Interi quartieri vengono progressivamente colonizzati da persone che provengono dalla stessa area geografica, e l’intera vita di quella zona assume un aspetto geo-culturale diverso, diventa una little qualcosa. Naturalmente possiamo riassumere la questione nella frase “in Italia ci sono gli stranieri”.
Però invece sarebbe bello, giusto e culturalmente utile se noi imparassimo a fare alcune semplici distinzioni, aiutati da certe nozioni di base della geografia, per capire meglio il nuovo mondo nel quale abitiamo. Innanzitutto: il termine Africa non significa assolutamente niente, se non appunto in geografia. L’Africa non esiste, e il termine africano dovremmo eliminarlo dal vocabolario (salvo in rari casi). Ma come: notiamo tante differenze tra un veneto e un campano, e non sappiamo nemmeno distinguere tra un somalo e un senegalese? Che non solo sono tipi umani assai diversi (molto più di uno svedese e un molisano), ma appartengono a culture distantissime, hanno religioni, usi, cibi totalmente diversi (quanto la ‘Nduia e il Würstel? Molto di più). Come mai molti degli africani presenti in Italia conoscono, spesso perfettamente, almeno un’altra lingua? E perché alcuni il francese e altri l’inglese? E non ci sono solo gli africani: l’Italia è sempre più popolata da “indiani”. Che poi siano dello Sri Lanka, del Kashmir o perfino afghani sembra fare poca differenza, mentre è esattamente come dire che un finlandese e un kossovaro in fondo sono culturalmente simili. Spesso si parla dell’invasione cinese in Italia: basta guardare una carta geografica per rendersi conto che “cinese” significa poco. Saranno tibetani o han? Il fatto che abbiano gli occhi a mandorla non significa niente. Ecco: che molti italiani non conoscano la differenza tra un thai e un taiwanese è davvero brutto, essendo magari loro vicini di casa.
Imparare un po’ di geografia infatti serve innanzitutto a spiegarsi quella della tua città, del tuo quartiere. E mi pare l’ingrediente indispensabile per due passaggi importanti: capire davvero chi abbiamo davanti, e iniziare a approfondire la conoscenza. C’è molto altro oltre l’involtino primavera, il djembé e l’incenso. Intere culture che aprono mondi di suoni, di sapori, di storie fantastiche, che oggi sono qui e arricchiscono la nostra società. E che noi spesso ci perdiamo, anche perché siamo un po’ scarsi in geografia.
* Frase tratta dal film Gran Torino