Uno dei tratti terrorizzanti (per me, un sacco di gente invece ci gode) della civiltà dei consumi contemporanea riguarda la questione dei prezzi delle merci. A tutti piace spendere meno, no? Ci piacciono gli sconti, le offerte speciali, i 3×2 (che non è che ne paghi due e il terzo è gratis, ma che hai uno sconto del 33,3% se ne prendi tre confezioni), i saldi. Dopotutto i soldi che spendiamo ce li siamo guadagnati faticosamente, e cerchiamo di farli fruttare al massimo: mi pare il minimo. Naturalmente sappiamo anche che mentre alcune merci hanno un prezzo determinato da materie prime e lavorazione (ad esempio il pane), altre hanno un costo che non ha alcuna relazione con la produzione. Secondo voi dei jeans rotti, smazzati da uno stilista con degli equini nel nome, valgono 300 euro? Ovviamente no: ne valgono 13, di cui 3 di effettiva produzione e 10 di reclame, ricarico, tasse, ecc. Quindi i rimanenti 287 euro costituiscono un ricarico arbitrario, che l’equino applica perché può, e anche perché se i suoi jeans rotti costassero 13 euro più IVA molti penserebbero che sono jeans di merda (il mondo è pieno di imbecilli, dopotutto). Viceversa quei 287 rendono il loro acquisto esclusivo, di classe, benché l’equino produca perlopiù abiti da tamarro/a senza redenzione. La stessa regola si applica a una grande quantità di merci diverse – basta pensarci un momento e si capisce subito quali sono.
Poi invece esiste la sindrome opposta: prodotti che hanno un prezzo ridicolmente basso. Ci siamo appena detti che il basso costo è importante, a volte decisivo per i nostri acquisti. Quindi le aziende fanno a gara a proporci i prezzi più infimi. Un chilo di caffè del Costarica può costare 20 euro al chilo, o anche 10, 5, 2, 1 o 50 centesimi. Magari non sarà lo stesso caffè, ma tutte le spese dalla produzione in poi sono le stesse: tostatura, impacchettamento, trasporto, tasse, ecc. Ma allora come fanno le aziende a vendere il caffè costaricano a un euro al chilo? Semplice: sfruttano i produttori. Se tutte le spese a valle della produzione sono fisse, è solo lì che loro possono operare sui prezzi. Con un metodo assai semplice: se io compro tutto il caffè prodotto in una certa regione, o meglio ancora ne possiedo tutte le coltivazioni, posso stabilirne il prezzo di acquisto. E naturalmente il mio prezzo di vendita finale ha una sola ragione di essere: voi, i miei clienti. Se lo faccio 20 al chilo quanto ne comprerete? Poco. Mentre a 2 euro sarete moltissimi. Quindi questo prezzo non ha alcun rapporto coi costi di produzione, ma solo e soltanto con la nostra disponibilità a spendere una certa cifra per un certo prodotto. Da qui naturalmente nascono le iniziative di commercio equo e solidale, dove il consumatore si impegna a spendere un pochino di più in cambio della certezza che chi ha prodotto quelle merci non sia sottopagato o sfruttato solo per consentire a me di pagare un po’ meno (o più di frequente, permettere alle multinazionali dei ricarichi ridicoli e immorali).
Quindi in realtà siamo noi a stabilire i prezzi delle merci. Non direttamente, ma attraverso i nostri comportamenti. Finché ci saranno persone disposte a spendere 300 euro per dei jeans rotti, ci sarà qualcuno che glieli vende. Idem per gli mp3 player alla frutta, i cellulari che basta sbatterli per passarsi un contatto (che pigiare due bottoni a questi gli fa fatica), gli occhiali da sole che riparano dal sole esattamente come quelli da 30 euro (inclusa la qualità delle lenti), ma che ti conferiscono l’aspetto fatale di una mignotta d’alto bordo per soli 250. Come ho già scritto, io sono assai favorevoli ai vestiti falsi – specie quelli indistinguibili dagli originali, ma a una frazione del costo. Se sono indistinguibili (e spesso lo sono, checché ne dicano gli equini) ma costano un decimo, allora il tarocco non mi pare quello cinese: mi sembra invece il prezzo, per nulla Dolce, che si becca il povero fesso: felice e Gabbato.