Le ormai comunissime licenze Creative Commons, frequentemente usate da piccoli (e medi) gruppi o artisti, tra cui molti di voi, per pubblicare la propria musica in rete, forniscono tre possibili articolazioni dei diritti: “Il detentore dei diritti può non autorizzare a priori usi prevalentemente commerciali dell’opera (opzione Non commerciale, acronimo inglese: NC) o la creazione di opere derivate (Non opere derivate, acronimo: ND); e se sono possibili opere derivate, può imporre l’obbligo di rilasciarle con la stessa licenza dell’opera originaria (Condividi allo stesso modo, acronimo: SA, da “Share-Alike”)” (dal sito creativecommons.it). Di tutte queste opzioni in negativo, quella più delicata mi pare quella Non commerciale, e vorrei spiegare perché.
Immaginiamo che io pubblichi un brano con una licenza Non Commerciale, Si a derivati, Share-alike. Questo significa che chiunque può utilizzare anche solo un campione del mio brano, ma deve farne un uso non commerciale, e estendere la stessa licenza al brano risultante. Il problema è che al momento la definizione di commerciale è assai nebulosa, e in futuro non può che peggiorare. Sappiamo tutti che esistono cose gratuite che però non lo sono così tanto, come ad esempio Youtube (che però nessuno considera un sito non commerciale). La musica che c’è su Myspace è gratis, ma è stata messa lì (anche da molti di voi) per ragioni sanamente commerciali: trovare concerti, etichette, etc. E che dire degli sfondi scrivania gratuiti offerti dal sito di Shakira?
Secondo me, il motivo principale che spinge le persone a applicare la regola del NC è psicologico: la gente pensa che la Coca Cola gli fregherà la musica, o che qualche grafico paraculo farà un copia incolla dei loro disegni per rivenderli a McDonalds. E’ chiaro che questo non andrebbe bene, e naturalmente se la Coca Cola si pubblicizza con la mia musica, io devo vedere dei soldi (e, in Europa, autorizzarla espressamente). Però, io penso, non se qualcuno usa due secondi della mia musica nella sua, o incolla un pezzo di una mia foto in un suo collage – perfino se poi ne fa un uso commerciale.
Per un motivo assai egoistico: io lo faccio di continuo, lo facciamo tutti – e chi non lo fa ancora, lo farà prestissimo. Viviamo in una cultura del remix, e molti dei migliori prodotti culturali degli ultimi anni sono fatti utilizzando anche materiale preesistente – da Grandmaster Flash a Michael Moore, da Marco Paolini a Gunther von Hagens. Questa non è una moda passeggera: è una fortissima tensione culturale, con solide radici (per esempio nella storia dei mass media) e un futuro assai brillante: il montaggio video casalingo in qualità broadcast si va diffondendo sempre di più, e la prima generazione di Internet babies (quelli che non ricordano la prima ricerca su Google, come noi non ricordiamo la prima telefonata) sta raggiungendo la maggiore età.
MI è sempre piaciuta molto la frase di Lawrence Lessig (uno degli inventori di Creative commons): “Il passato cerca di impedire al futuro di succedere”. Se sei uno smanettone musicale del 2009, tu rippi, campioni, remixi, masterizzi, posti, condividi, scambi, ricampioni, copi e incolli con ardore, lo stesso che avevano i Beatles quando hanno scritto Love me do. Ecco, io credo che questi manufatti digitali (che sono il prodotto simbolo della nostra cultura contemporanea) dovrebbero avere le stesse chance che hanno avuto, ai loro tempi, quelli di Lennon e McCartney.
Ecco come mai la mia musica, se usata in frammenti insieme ad altro, è SA e basta: se la usi così com’è devi pagare. Ma se mi campioni, voglio solo essere citato, e che tu estenda la stessa licenza al tuo pezzo; poi puoi anche usarlo a fini commerciali. Anzi dovresti: l’alternativa è che te lo tieni nel computer e lo fai ascoltare agli amici. Mentre una regola d’oro della vita è che “What goes around, comes around” (quello che va, poi torna). E più va, più poi torna – per tutti.