Ho conosciuto Rossella nel 2005 attraverso Andrea Lissoni e Claudio Sinatti. Lo dico perché lei lo ripeteva sempre quando ricordava il nostro incontro: il cortile, i miei tatuaggi e ovviamente i nostri discorsi sul suono. La Scuola di Arti Visive di IED Milano, che lei dirigeva, stava progettando un corso di Sound Design. L’idea era sua e, come spesso succedeva con le sue idee, aveva un innesco doppio. Da un lato l’intuizione culturale (all’epoca quasi visionaria) che il disegno del suono stesse diventando sempre più rilevante, e dall’altro l’integrazione con gli altri corsi della scuola, innanzitutto video e animazione. Questo approccio duplice era un tratto ricorrente delle idee di Rossella che ho sempre apprezzato moltissimo, fin da quando ci siamo messi a progettare il corso di Sound Design che rispecchiava (e rispecchia ancora) esattamente questa impostazione. Sempre seguendo i suoi due comandamenti fondamentali: attenzione al nuovo e alla qualità. Nel tempo ci siamo osservati lavorare, il rapporto è cresciuto e siamo anche diventati amici. Oltre all’affetto e alla stima ci legava una coincidenza di interessi culturali presenti e passati che a volte sfiorava il ridicolo: tutti e due abbiamo avuto diverse vite precedenti nelle quali abbiamo attraversato molte delle stesse persone e ambienti. Artisti, autori, musicisti, scrittori, ogni tanto mi accendeva un ricordo e in molte occasioni persone a me vicinissime erano state in contatto anche con lei e viceversa.
Oltre al corso di Sound Design, dove insegno ancora, fin da subito le ho proposto una classe di Cultura Pop, che nella mia testa avrebbe dovuto funzionare proprio sui due piani di cui parlavo prima: raccontare un aspetto fondamentale della cultura contemporanea riempiendolo di connessioni coi corsi IED e, ma questo lo abbiamo scoperto dopo, forse utile a dei giovani che hanno un rapporto complesso e multiforme col passato culturale Pop. Non solo Rossella ha capito immediatamente di cosa stavo parlando: è venuta a lezione (erano le mie prime in assoluto), mi ha dato delle dritte molto utili e l’anno successivo l’ha inserita tra le materie culturali del primo anno di Arti Visive, dove ancora si trova con mia somma gioia e, mi pare, una sua utilità.
Rossella Bertolazzi (premiata dall’ADI col Compasso d’Oro alla carriera nel 2020) apparteneva a una categoria di intellettuali rara e preziosa. Non produceva teorie o saggi, benché avrebbe certamente potuto se avesse voluto. La sua specialità erano i tragitti, le esperienze, gli incroci, e il suo pubblico di riferimento erano gli studenti. Lavorandoci insieme ho colto quasi subito questa sua specialissima qualità: assortire insegnanti competenti e di spessore per costruire una narrazione, un plot educativo, quell’esperienza culturale e tecnica ma anche umana e professionale che chiamiamo percorso didattico. Docenti diversissimi per approcci, competenze e metodi, spesso molto personali, ognuno dei quali era una nota nella polifonia che Rossella componeva. Mi sono sempre spiegato anche così la sua assidua, puntigliosa presenza alle tesi di fine anno: voleva ascoltare la sinfonia finita.
Come spesso capita a chi ha grandi talenti, Rossella non era priva di spigoli, anzi. Sapeva essere abrasiva, perfino feroce e se doveva dirti qualcosa non si faceva problemi. Credo che chiunque abbia avuto un rapporto stretto con lei ci sia passato, io di sicuro. Questa sua fierezza era bilanciata da una sua altra grande qualità: essere comprensiva (nel senso letterale) senza essere materna, affettuosa ma non melensa. Ho una vita complicata, e nei quasi vent’anni che ho insegnato sotto la sua direzione ho avuto la mia dose di alti e bassi, di drammi grandi e piccoli, singhiozzi esistenziali che qualche volta hanno anche influito sul mio lavoro. Le sue reazioni sono sempre state appropriate: a volte angolose, altre empatiche – comunque efficaci. Con lei ho un debito di riconoscenza inestinguibile: ha capito molto prima di me che avrei potuto essere un insegnante e mi ha messo nella condizione di diventarlo. Oggi la didattica è una parte importante della mia vita professionale e creativa, dentro e fuori da IED.
La vita ha servito a Rossella una pietanza amarissima. Per una persona così perdere la vista, e quindi l’autonomia, è stata una pena particolarmente aspra, lei sdrammatizzava ma a me sembrava evidente, anche per via della curiosa natura della nostra amicizia: scherzavamo ferocemente su tutto, inclusi il mio recente infarto e la sua invalidità, e ci scambiavamo delle confidenze anche intime. È il caso dell’ultima volta che ci siamo visti, qualche giorno prima che ci lasciasse. Abbiamo perfino riso ma era insolitamente stanca, esausta, sfinita, lucidissima ma priva della sua luminosa energia e forse anche della voglia di vivere: mi conforta pensare che il suo trapasso, forse, sia stato almeno in parte un sollievo.
Non è un caso che sui miei canali Social molte delle reazioni alla sua morte (il 17 luglio scorso) siano state di ex studenti, che non avevano frequenti occasioni formali di interazione con la direttrice ma che lei riusciva a intercettare durante il triennio, e a cui dedicava un’attenzione che lasciava il segno. Ricorderemo Rossella Bertolazzi per molto tempo, in molti modi. Parlo al plurale perché in questi quasi vent’anni ho osservato con stupore e ammirazione il vortice di persone, idee, progetti e percorsi culturali che le ruotava intorno, di cui era il centro, il cuore. Un tornado umano e creativo che dovremo celebrare a lungo – insieme alla fortuna di esserci finiti dentro.
Foto di Maki Galimberti, clicca per ingrandire